Recezione e persecuzione

Redazione

Le parole della chiesa sul califfo, l’ovattata neutralizzazione di Melloni. Francesco invoca riconciliazione a Seul, e da Pyongyang lo accolgono con una raffica di missili. Ma non è quello il quadrante geostrategico davvero a rischio per la chiesa.

Francesco invoca riconciliazione a Seul, e da Pyongyang lo accolgono con una raffica di missili. Ma non è quello il quadrante geostrategico davvero a rischio per la chiesa. Il 9 agosto scorso Bergoglio ha scritto di sua mano al segretario dell’Onu, Ban Ki-moon: “Metto davanti a lei le lacrime, le sofferenze e le grida accorate di disperazione dei cristiani e di altre minoranze religiose dell’amata terra dell’Iraq”. Ha spronato “a fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze”. Ieri una veglia in favore delle comunità perseguitate si è svolta a Milano, oggi la Cei ha convocato una giornata di preghiere “per non tacere”. Gesti sempre sottili, va da sé, niente “svolte”, del resto persino un decano vaticanista come Luigi Accattoli, sul Corriere di ieri, ha ammesso, in un inciso, che l’offensiva della chiesa contro il Califfato è “forse in ritardo”. Comunque, “la novità consiste nel nominare i fatti e i loro responsabili e chiedere a tutti di reagire”. O dovrebbe consistere. Perché nel mondo ecclesiale persiste un linguaggio riluttante, si coglie la pastosità di una resistenza a un pensiero più esplicito. Una “mancata recezione” dello spirito nuovo, diremmo. Ieri sul Corriere Alberto Melloni, che è storico della chiesa, sa di diplomazia ma è anche uomo di linguaggio, spiegava a suo modo “le tre mosse del Papa sulle persecuzioni”.

 

Ma le ovattava, le circoscriveva. “Ha rifiutato di distinguere tra le vittime di atrocità”, scrive, “ha implicitamente ricordato che i tagliagole del sedicente Califfato non sono l’islam”. Ma è soprattutto la terza mossa, che “sta nel documento del pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso del cardinale Tauran” a interessarlo. Secondo Melloni contiene soprattutto la richiesta all’islam “di sconfessare… e condannare una brutalità che bestemmia l’islam”. In realtà la nota dice assai di più: “Condannare senza ambiguità queste pratiche indegne dell’uomo”; “il massacro di persone per il solo motivo della loro appartenenza religiosa; la pratica esecrabile della decapitazione, della crocifissione e dell’impiccagione di cadaveri nei luoghi pubblici; la scelta imposta ai cristiani e agli yazidi tra la conversione all’islam, il pagamento di un tributo (jizya) o l’esodo”. E via dicendo, chiamando per nome offese “di estrema gravità verso l’umanità e verso Dio che ne è il creatore, come ha spesso ricordato Papa Francesco”. Parole di fronte a cui lo spirito ovattato del vecchio linguaggio ecclesiale e la mancata recezione della persecuzione stonano un po’.