James Hogan, amministratore delegato di Etihad (Foto Lapresse)

Turboliberisti in volo, giungono elogi (inaspettati) alla Alihad

Alberto Brambilla

Alitalia torna di fatto in mano pubblica (anche se non italiana). Allora perché eccita i difensori del libero mercato?

Può sembrare una contraddizione che arrivino elogi all’accordo tra Alitalia e Etihad da due turboliberisti come gli economisti Ugo Arrigo e Andrea Giuricin, giro dell'Istituto Bruno Leoni, accademia di provenienza Università Bicocca di Milano. Dai dei pasdaran dello stato minimo e del libero mercato ci si aspetterebbe una reazione diversa nel vedere che la compagnia di bandiera nazionale è tornata in mano pubblica, almeno a giudicare dalla natura dei soggetti che di fatto detengono la maggioranza delle quote. Etihad, ovvero gli Emirati Arabi Uniti, avranno il 49 per cento delle azioni – Poste, ovvero la compagnia di spedizioni controllata dal Tesoro italiano, avrà una quota del 5 per cento circa – AirFrance, il cui primo azionista singolo è lo stato francese, conserverà, forse, una quota marginale. Il resto alla cordata di imprenditori italiani artefici del tracollo degli ultimi anni.

 

Tuttavia stavolta l'Alitalia non si merita sculacciate liberiste, e non certo sulla base di un calcolo aritmetico. La questione dello stato padrone è marginale e anzi, la metamorfosi del capitalismo di stato e il suo necessario adattamento alle logiche di mercato spinge i colossi di stati rentier o autoritari ad affidarne la gestione a manager occidentali navigati per massimizzare il profitto. E' appunto il caso di Etihad: soldi arabi, gestione anglossassone. Un fatto tutt'altro che secondario, soprattutto in questo caso.

 

La nuova Alitalia ha un piano industriale costruito su prospettive di sviluppo giudicate credibili e dettate sotto l’indirizzo di Etihad e del suo ceo, James Hogan, che ha obiettivi non eccessivamente ambiziosi e sembra determinato a raddrizzare la compagnia. Il piano industriale degli ex capitani coraggiosi, il cosiddetto Piano Fenice, prometteva ritorni esorbitanti, poco sviluppo, ripiegamento sul mercato domestico ed è stato portato avanti tra scelte manageriali discutibili e una strategia cangiante; unica scusante: una congiuntura economica pessima, come si sa. Ugo Arrigo e Andrea Giuricin, sono stati tra i critici più ruvidi dell’opera fallimentare dei capitani coraggiosi. E oggi, tra i primi, elogiano numeri alla mano l’alleanza tra Alitalia e gli emiratini.

 

“Il piano di sviluppo Alitalia/Etihad presuppone una crescita nel segmento a lungo raggio, quello maggiormente profittevole nel trasporto aereo. In un’analisi realizzata per l'Università Bicocca all’indomani dell’intesa dell’8 agosto, Arrigo e Giuricin mettono in fila i “benefici sociali ed economici della partnership”. In sintesi, tutto sta nel piano triennale 2015-2018, piano “credibile e solido che permette ad Alitalia di svilupparsi sul lungo raggio”, le rotte internazionali, e ambire a ridurre il divario con i concorrenti più forti come British Airways e AirFrance-Klm in temini di fatturato per aereo. L’idea di fondo è innanzitutto che Alitalia ha una strategia chiara. E ciò basterebbe. Per di più è buona e non eccessivamente ambiziosa. Con lo sviluppo delle rotte internazionali e intercontinentali, grazie a sette nuovi aerei dedicati, nel 2018, una volta conclusa la riorganizzazione della flotta i ricavi per passeggero e per posto offerto aumenteranno a parità di costi fissi. Più in generale l’Italia sarà un paese più collegato con l’estero e destinazioni asiatiche attraverso la possibilità di sfruttare il network di Etihad fatto di vettori di piccola e media stazza, europei e orientali, dove gli emiratini possiedono quote rilevanti. E gli aeroporti avranno il loro daffare. Ma è meglio lasciare parlare Arrigo e Giuricin, nelle conclusioni del rapporti si evidenziano sì le possibilità di sviluppo ma soprattutto si comprende che un fallimento avrebbe significato un armageddon.

 

Ecco le conclusioni: “Il piano di sviluppo Alitalia/Etihad presuppone una crescita nel segmento a lungo raggio, quello maggiormente profittevole nel trasporto aereo. Questo sviluppo avverrebbe maggiormente nello scalo di Roma Fiumicino, ma anche altri aeroporti sono interessati. Il numero di frequenze settimanali aumenterebbe del 30 per cento da qui al 2018 nello scalo romano e complessivamente del 62 per cento a livello italiano. Questo forte incremento permette al nuovo piano di essere credibile e al contempo di dare un futuro alla compagnia aerea, che altrimenti sarebbe costretta a porre la parola fine.
Lo sviluppo di Alitalia è estremamente utile all’economia e all’occupazione, non solo nella Regione Lazio, ma in tutto il territorio nazionale.

 

Il mantenimento dell’hub, che senza Alitalia verrebbe smantellato, permetterebbe di salvare circa 30 mila posti di lavoro diretti e indiretti nel territorio laziale e circa 50 mila posti di lavoro a livello nazionale. Lo sviluppo di Alitalia è estremamente utile all’economia e all’occupazione, non solo nella Regione Lazio, ma in tutto il territorio nazionale. Il mantenimento dell’hub, che senza Alitalia verrebbe smantellato, permetterebbe di salvare circa 30 mila posti di lavoro diretti e indiretti nel territorio laziale e circa 50 mila posti di lavoro a livello nazionale. Al tempo stesso l’hub è necessario per sviluppare il business delle aziende e permettere una maggiore attrazione degli investimenti diretti esteri, che a loro volta hanno un impatto positivo sull’occupazione.
L’incremento dei voli diretti a lungo raggio del 60 per cento permette di spostare verso l’Italia una parte dei passeggeri che ora utilizzano altri hub europei, con un impatto importante anche sul turismo intercontinentale. Senza il Piano Alitalia/Etihad, che lascerebbe comunque l’azienda con un pieno controllo europeo, Fiumicino smetterebbe di essere un hub. Senza il Piano Alitalia/Etihad si perderebbero delle possibilità di sviluppo del network internazionale da tutta Italia. Il Piano dunque è essenziale per i benefici economici e sociali che porta a tutto il territorio nazionale.”

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.