MAtteo Renzi (foto LaPresse)

Intellò dei miei stivali

Marco Valerio Lo Prete

Lo spauracchio del “decisionismo” e i tic narcisisti. Pellicani sugli opinionisti nell’èra di Craxi e Renzi. “Con certi opinionisti che ci ritroviamo, l’Italia produrrebbe solo sfoghi, altro che decisioni”.

“Tzvetan Todorov, fuggito dalla Bulgaria comunista in Francia negli anni Sessanta, disse che se nel suo nuovo paese d’adozione avessero votato i soli intellettuali, pure la Francia si sarebbe trasformata in una dittatura totalitaria”. Luciano Pellicani, sociologo alla Luiss, al ruolo dei colleghi intellettuali nella storia moderna e contemporanea ha dedicato negli anni ricerche approfondite. Prim’ancora, da animatore della rivista socialista Mondoperaio, di cui divenne direttore nel 1985, alla storia dei colleghi intellettuali ha pure partecipato in prima persona. Li conosce, dunque, non al punto da evitarli – come vuole il detto – ma al punto di diffidarne sì. Specie di quelli italiani.

 

Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a Repubblica, ha detto che “verrà il giorno in cui si potrà finalmente parlare delle responsabilità anche delle élite culturali nella crisi italiana: i politici hanno le loro colpe. Ma professori, editorialisti, opinionisti non possono ritenersi senza responsabilità”. Poi ha aggiunto che sono finiti i tempi del “discussionismo”. Apriti cielo, tornano le accuse di craxismo, autoritarismo, populismo… “Il parallelo con Bettino Craxi e la sua espressione ‘intellettuali dei miei stivali’ è decisamente calzante – dice Pellicani – Ma Renzi e Craxi al massimo sbagliarono nel metodo, cioè nell’abbassarsi al livello degli intellettuali e nel rispondere loro. Non sbagliarono nell’identificare il meccanismo sempre all’opera nel nostro paese, e che poi è quello valido per il coach della Nazionale di calcio. Se un politico fa bene, viene tutt’al più risparmiato dalle critiche. Se non raggiunge i risultati attesi, viene linciato”. Così come il leader socialista, oggi Renzi è accusato “di un vizio indicibile per ampi settori del nostro establishment, il ‘decisionismo’ – dice il sociologo – Quale che sia il contenuto delle presunte decisioni, il ‘decisionismo’ è di per sé una bestia nera dell’intellettuale italiano, cresciuto nutrendosi dello spauracchio dell’autoritarismo. ‘Decisionismo’ poi vuol dire che il politico non starà sempre ad ascoltarli”.

 

“Il politico deve rispondere con i fatti alle sollecitazioni degli intellettuali, invece questi ultimi vorrebbero che stesse sempre lì ad ascoltarli”, dice Pellicani. Luca Ricolfi, sulla Stampa, ha scritto che l’emarginazione di tecnici ed esperti è un corollario del riaffermarsi del primato della politica: “E perché mai? Il primato della politica, che Renzi fa bene a rivendicare, vuol dire ‘decisione sovrana’. Poi i tecnici restano indispensabili per non perdere il contatto con ciò che oggi fa muovere il mondo a ritmi incessanti, la triade mercato-scienza-tecnologia”. Piuttosto, per Pellicani, “Ricolfi pare addossare la colpa a Renzi di avere preso troppi voti, ergo di rasentare il populismo. Ribalterei il problema. Sembra che l’intellettuale, per definizione, debba stare all’opposizione del potere. Ma questo atteggiamento è irrealistico. Per esempio, di quali competenze tecniche si potrebbe giovare il potere politico se i teorici fossero a lui avversari, sempre e comunque?”. Quasi sempre all’opposizione, l’intellettuale italiano ha di conseguenza due opzioni. “C’è l’‘intellettuale retore’, per esempio, che non ha nessuna competenza solida da offrire e pratica il richiamo continuo ai princìpi. Qualcuno lo fa ad alti livelli, come fu nel caso di Norberto Bobbio, altri…”.

 

Poi ci sono quelli che agitano a giorni alterni lo spauracchio dell’autoritarismo: “Sa cosa diceva Jean-Paul Sartre del presidente De Gaulle? ‘Prima o poi lascerà cadere la maschera e mostrerà il suo volto fascista’. Ecco, questo schema si ripete. In principio fu la ‘bolscevizzazione’ dell’intellettuale italiano: bisognava vedere il fascismo ovunque. Il Pci poi alimentò questo clima nella Prima Repubblica, perché preferiva avere a che fare con governi deboli che cadessero spesso e nei quali potesse avere un ruolo significativo, seppure dall’esterno”, dice Pellicani che nel 1978, con i suoi studi sul socialismo libertario di Proudhon, fornì le cartucce teoriche per la risposta di Craxi (Psi) a Enrico Berlinguer (Pci) che ancora lodava “la ricca lezione leniniana”. “Oggi su Renzi e il suo autoritarismo si sentono dire sciocchezze simili da personalità come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà”, continua il sociologo. Perciò Pellicani, per rispondere ai “sacerdoti del Tempio democratico”, “intellettuali militanti che, col pretesto di difendere la Costituzione, avallano, de facto, le degenerazioni del parlamentarismo”, ha di recente sottoscritto un appello pro riforme istituzionali.

 

Pellicani non è nuovo a questo tipo di confronto. Nel 2002, in una piazza San Giovanni gremitissima su iniziativa dei Girotondi, fu subissato di fischi per aver detto che “il massimalismo giustizialista porta dritti alla sconfitta”. Il tempo (a volte) è galantuomo. “Ora i commentatori dovrebbero ragionare sul fatto che la nostra è una democrazia acefala. Che nella Prima Repubblica un governo durava in media un anno, nella Seconda un anno e mezzo. Dopo 20 anni di semiparalisi, cosa vogliono oggi gli intellettuali italiani? Se nulla cambia nel processo decisionale, il nostro sistema continuerà a produrre soltanto sfoghi, altro che riforme – conclude Pellicani – E’ questa la loro democrazia preferita?”.

 

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