Un militare americano durante la precedente missione in Iraq del 2003 (Foto Ap)

Boots on the ground

Kenneth Pollack spiega perché servono uomini sul campo in Iraq per far fruttare gli attacchi aerei.

New York. L’Amministrazione Obama ha promesso che rifornirà “direttamente” e “nel più breve tempo possibile” i peshmerga curdi di Ak-47, mortai e munizioni, assistenza che l’esercito chiede con forza da quando lo Stato islamico ha iniziato a premere sui confini della regione con armi pesanti sottratte all’esercito iracheno. Alcuni funzionari del Pentagono non escludono che l’America possa provvedere ai curdi anche missili anticarro e artiglieria più sostanziosa. Assieme agli attacchi aerei alle linee dello Stato islamico, sono questi gli strumenti che l’Amministrazione americana offre per respingere l’avanzata dei jihadisti verso il territorio curdo e magari cambiare l’inerzia del conflitto almeno in quell’angolo di Iraq che persino il riluttante Obama ha deciso di difendere con la forza. Questo scenario tattico – e di sola tattica si parla, la strategia non è pervenuta – apre diverse domande: il circoscritto intervento americano sarà abbastanza per cambiare i rapporti di forza sul territorio? L’esercito curdo è abbastanza preparato e fedele per garantire la sicurezza? Gli americani, che si fidavano dell’inaffidabile esercito iracheno, possono contare sui peshmerga? E ancora: qual è la reale potenza militare dello Stato islamico? I bombardamenti dall’alto possono fermarne l’espansione?

 

Kenneth Pollack, analista della Brookings Institution ed ex consulente del Consiglio per la sicurezza nazionale sotto l’amministrazione Clinton – nonché autore, nel 2002, della più convincente argomentazione fatta da sinistra a favore dell’invasione dell’Iraq – ha redatto un’analisi delle forze in campo, una radiografia dettagliata che restituisce ambizioni, cambiamenti, obiettivi raggiungibili e impossibili degli schieramenti. La conclusione di Pollack è che “la potenza aerea americana non può cacciare lo Stato islamico e altri gruppi di miliziani sunniti dall’Iraq del nord senza una forza di terra complementare di qualche tipo”. E’ anche quello che ha detto, con parole appena più caute, il direttore delle operazioni del Pentagono, William Mayville.

 

“Non voglio in nessun modo suggerire che siamo stati in grado di contenere o che stiamo cambiando l’inerzia della minaccia posta dallo Stato islamico”, ha detto Mayville. L’efficacia limitata di un intervento dall’alto – che si potrebbe definire una sostanziale impotenza, se l’obiettivo finale è neutralizzare lo Stato islamico e non solo tenerlo lontano da Erbil – dipende anche da una serie di fattori sul campo. Primo: affidabilità ed effettiva capacità dei peshmerga. I soldati curdi sono a lungo stati considerati combattenti capaci, molto motivati e temprati da decenni di guerre. Negli ultimi tempi questa versione sembra essersi rovesciata e si è diffuso un certo scetticismo riguardo alle effettive abilità belliche dei curdi. Pollack ricorda innanzitutto che un esercito composto di fanteria leggera e un numero esiguo di mezzi pesanti difficilmente può difendere un confine di oltre mille chilometri da un nemico con l’artiglieria. Contrattaccare non è nella lista delle opzioni praticabili. In più, fra le giovani generazioni di reclute non ci sono “i coriacei ragazzi di montagna nati con il fucile sotto braccio”, ma giovani di città che “probabilmente hanno sparato a ‘Call of Duty’” più che con fucili veri. Infine, le tattiche dei peshmerga sono le stesse dagli anni Ottanta, mentre i nemici si sono parecchio evoluti. Il secondo fattore che spiega l’inefficacia del solo approccio aereo è la reale forza dello Stato islamico. Ci sono molti “unknown”, spiega Pollack, ma lo Stato islamico è ben armato e i combattenti sono motivati come nessun’altra forza in campo: “La forza  principale consiste nelle motivazioni delle sue truppe, non nella potenza di fuoco”.

 

Il sospetto, “diffuso anche a Washington”, è che le rapidissime operazioni di conquista viste finora siano il frutto delle competenza di ufficiali iracheni che si sono uniti ai jihadisti. Il terzo fattore riguarda il rapporto con il nascente governo iracheno, a cui Washington chiede di essere “inclusivo” per trovare quel complicato equilibrio fra sciiti, sunniti e curdi che nessun attacco aereo può imporre. Servono uomini sul campo per trasformare una campagna di bombardamenti in una strategia contro lo Stato islamico, ma quali uomini? Idealmente i militari iracheni in accordo con i leader tribali sunniti e magari pure con il supporto dei peshmerga. Ma perché succeda “serve un profondo cambiamento politico a Baghdad”, scrive Pollack, “e gli eventi stanno mettendo in discussione sempre di più la possibilità che avvenga”.

 

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