Matteo Renzi (foto LaPresse)

L'euro senza febbre, Renzi senza scuse

Marco Valerio Lo Prete

Sottovalutiamo il fatto che la cura Merkel-Draghi per l’euro ha funzionato. Moody’s? Il debito italiano è sostenibile, no a ristrutturazioni e patrimoniale, dicono i calcoli di Cline (Peterson Institute). “Meno creatività e più riforme”

“Questo non è un momento in cui all’Italia si richiede chissà quale creatività per aggredire la crisi economica. Piuttosto stay the course”, cioè meglio continuare sulla strada segnata, con determinazione, come da espressione anglosassone mutuata dal gergo militare. Innanzitutto perché, presi da scivoloni e polemiche che ci hanno occupato per anni, abbiamo perso di vista un fatto: “La cura Merkel-Draghi per l’euro non sarà stata perfetta ma ha funzionato”. Ne è convinto William R. Cline, senior fellow del think tank statunitense Peterson Institute for International Economics, già capo economista e vicedirettore dell’Institute of International Finance, la lobby planetaria delle banche.

 

Scusi professor Cline, nel frattempo però, e soltanto per stare alle ultime ore, l’agenzia di rating Moody’s ha tagliato le stime di crescita dell’Italia per l’anno in corso, da più 0,5 per cento a meno 0,1, sempre più distante dal più 0,8 per cento previsto dal governo. Il rapporto debito pubblico/pil, sempre secondo Moody’s, toccherà quest’anno il picco del 136,4 per cento, salvo poi scendere a 135,8 per cento il prossimo anno. E il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, intervistato ieri dal Financial Times, ha detto che non ha nessuna intenzione di superare il tetto del 3 per cento al deficit per quest’anno, ma ha pure ammesso che lo stesso rapporto deficit/pil raggiungerà il 2,9 per cento, ammesso che si palesi un po’ di crescita. Per non parlare dei livelli record della disoccupazione. Sarà sufficiente stay the course? Cline risponde con i numeri e gli scenari tracciati nel suo ultimo libro, “Managing the Euro Area Debt Crisis”, edito dal Peterson Institute di Washington.

 

“Già dal titolo, dove uso l’espressione ‘managing’, ‘amministrare’, intendo alludere al fatto che la crisi ha raggiunto una fase per cui d’ora in poi sarà gestibile senza misure choc. La mia diagnosi è che le economie della cosiddetta periferia dell’Eurozona – Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda – sono tornate solvibili e i loro governi non hanno bisogno di infliggere perdite ai loro creditori attraverso ristrutturazioni dei loro debiti pubblici”. Né ristrutturazioni, né prelievi fiscali monstre: “La strategia delle imposte patrimoniali straordinarie è rischiosa. Così come non esiste la ‘ristrutturazione immacolata’ del debito, cioè senza conseguenze imprevedibili nei mercati, allo stesso modo non sappiamo come consumatori e investitori potrebbero reagire oggi in caso di un’imposta patrimoniale”.

 

Secondo Cline, la situazione di partenza è la seguente: “Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia e Spagna, alla fine del 2012, hanno già completato il 60-75 per cento dell’aggiustamento fiscale necessario a invertire i loro disavanzi primari, cioè la differenza tra entrate e uscite dello stato al netto del pagamento degli interessi sul debito, e trasformarli in avanzi primari”. Poi, considerando cinque variabili chiave come lo spread sui titoli sovrani, il tasso di crescita, l’avanzo primario, il gettito da privatizzazioni e le risorse da accantonare per perdite bancarie o contributi europei, Cline disegna tre scenari per l’Italia di qui al 2020. “In quello più positivo, cioè con tassi di crescita reale dell’1,73 per cento dal 2015 al 2020 e un avanzo primario che supera il 5 per cento nel 2017, il rapporto debito pubblico/pil scenderà al 113 per cento tra sei anni. In quello più negativo, con crescita allo 0,2 per cento quest’anno e poi sempre sotto l’1 per cento fino al 2020, a fronte di un avanzo primario di poco superiore al 2,5 per cento, il debito pubblico scenderebbe comunque al 126 per cento di qui al 2020.

 

Con gli attuali rendimenti sui titoli di stato, non c’è un problema di solvibilità del debito pubblico. Nello scenario intermedio più probabile, il debito scenderà al 119 per cento”. Oggi la crescita italiana sembra avvicinarsi già allo scenario peggiore, è difficile che si raggiunga un tasso di sviluppo dello 0,8 per cento dopo i primi due trimestri negativi. L’avanzo primario previsto nel Documento di economia e finanza (Def) è però maggiore dello scenario più pessimista di Cline: 2,6 per cento del pil quest’anno (e non 2,3), poi su fino al 4,4 per cento nel 2018 (e non fermo al 2,7 come prevede Cline). L’Italia insomma sarà sufficientemente virtuosa sui conti pubblici per ricondurre il proprio debito a misure più accettabili. Ma non è curioso allora che il governo proprio ora faccia intendere di volersi avvicinare al limite del 3 per cento previsto dagli accordi europei? “Mi sembra che Bruxelles sia sempre più disposta a calibrare il ritmo dell’aggiustamento fiscale in base agli sforzi già compiuti e alle prospettive di crescita future. Chiedere e ottenere flessibilità non dev’essere un problema – dice l’economista statunitense – A patto di non perdere di vista che non è con gli stimoli fiscali che si rianima il pil, e che l’ultima cosa che ci vorrebbe oggi è un segnale ai mercati che faccia risalire lo spread”.

 

Nel suo saggio, Cline affronta anche la vexata quaestio del “moltiplicatore fiscale”. Fuori dal gergo degli economisti: il risanamento dei conti pubblici fa più bene o male alla crescita? La teoria dell’austerità espansiva, per cui una stretta al bilancio praticata con tagli alla spesa invece che con aumenti di tasse può rilanciare la crescita alimentando la fiducia, è stata autorevolmente contestata. Secondo il  Fondo monetario internazionale, per esempio, gli effetti dell’austerity sono comunque più penalizzanti del previsto. Cline però sostiene che questi due approcci statici non tengono conto che uno stimolo fiscale alla domanda, in situazioni di tensioni finanziarie acute, può accrescere il rischio percepito di default sovrano: al punto che secondo i suoi calcoli, per l’Italia, dove il tasso di disoccupazione nel 2012 era di poco superiore a quello medio del periodo pre-crisi e il debito superiore al 120 per cento, una qualsiasi iniezione di spesa pubblica a sostegno della domanda avrebbe avuto effetti nulli o peggio negativi: “Quando lo spread tra Btp e Bund era sopra i 400 punti, sarebbe stato come gettare benzina sul fuoco”.

 

Insomma, anche per l’Italia, così come per i paesi che all’apice della crisi persero l’accesso ai mercati dei capitali (Grecia, Portogallo, Irlanda), non c’erano molte alternative rispetto al risanamento dei conti. “Poi, certo, gli storici potranno discutere se l’Outright monetary transactions, cioè lo scudo anti spread della Banca centrale europea, poteva essere annunciato un anno prima rispetto al 2012. A parer mio, in Europa non c’erano le condizioni politiche”. Quel “farò tutto il necessario” per salvare l’euro, pronunciato da Draghi, rimane anche per Cline il momento di svolta della crisi: “Non solo perché ha abbassato gli spread. Assieme alla costituenda Unione bancaria e al fondo Esm, ha interrotto pure i meccanismi di contagio automatico che potrebbero seguire eventi negativi futuri e improvvisi”.

 

Il debito italiano è sostenibile, insomma, ma “la politica non può adagiarsi sugli allori. Perché il vostro è il paese che dovrà mantenere un avanzo primario maggiore, seppure non proibitivo, se vorrà evitare di riattirare su di sé le attenzioni poco benevole dei mercati. E perché la sostenibilità del debito non elimina da sola i problemi dell’economia reale. Il governo Renzi annuncia giustamente che la strada da percorrere è quella delle riforme strutturali”. Con l’imprimatur di Draghi o della Troika? “No, meglio se nel rispetto del principio di sussidiarietà – conclude Cline – C’è sicuramente il tempo, e molto probabilmente la consapevolezza, per farlo”.