Nella piazza Magenta del borgo si presentano libri, pur senza mai raggiungere il tetto di queli scritti dall’uditorio

Capalbio blues

Stefano Di Michele

Anche l’Ultima spiaggia della sinistra radical chic è passata al tritatutto renziano Fenomenologia di un mito tra cocomeri e dibattiti su cui ora cala il sipario.

Sempre, il contesto è tutto. Non fosse stato Capalbio, poteva essere una scena da film dei fratelli Vanzina. Si poteva intravedere nel caldo di agosto – fosse stato il rustico litorale romano, Fregene escluso, si capisce – l’ombra der Monnezza o der conte Tacchia: “Nun me scaciottà ’a bombarda”. “Ma che c’hai preso ’e ferie pe’ rompeme li cojoni?”, con seguito di appositi gavettoni. Ma il contesto era Capalbio – la “piccola Atene” sull’Acropoli maremmano, pur se il cinghiale allora raspava all’orizzonte e dei pecorai sardi arrostivano pecore allo spiedo per certe feste: il macrobiotico neppure si intuiva – e il lancio di “còcce” di cocomero tra due intellettuali di risaputa caratura come Giacomo Marramao e Alberto Asor Rosa fu perciò solo piacevole trastullo, socievole intrattenimento, amabile svago. Al più, intermezzo tra i francofortesi e il Genus Italicum. Ecco, quell’innocente tiro al bersaglio postprandiale degli anni Settanta (innocente e peraltro avveduto: si lanciavano le bucce mica la polpa, a riprova di progresso in irresistibile avanzamento, non come gli antichi senza coscienza che le bucce le mangiavano e buttavano i fichi), rievocato in apposito volume, spiega molto dei destini di un luogo o di un altro. Capalbio – il contrario a Dio piacendo di ogni Milano da bere. Di ogni danarosa ostentazione – ché mica stiamo a Forte dei Marmi. Di ogni barbarica tracimazione – genere famiglia Passaguai in spiaggia (Aldo Fabrizi, anno 1952: lì il cocomero lo mettevano a pigliare fresco sotto la sabbia). Capalbio fu rurale e discreto ritrovo, fu poi icona della sinistra medio-alta riflessiva, fu imperdibile antologia fotografica dell’ultimo quarto di secolo, fu… Ecco, fu. Ei fu – Capalbio, ora mediaticamente in napoleonico collasso. O almeno così certifica, sul Corriere della Sera, Umberto Pizzi da Zagarolo (posto che meno capalbiese non si potrebbe, paese ottimo per ultimo tango spernacchiato da Franco & Ciccio), paparazzo di gran nome e felicissima sfrontatezza, che per decenni   sdraio e ombrelloni, petti democratici disgraziatamente mai mutati in pettorali e chiappe in discreto abbronzamento e sciagurato rilassamento, il naso sensibile sempre infilato tra le pagine di un quotidiano (ma che sia perlomeno liberal, al massimo l’inserto cultura del Sole 24 Ore, “casomai mi avessero recensito”) o di un imperdibile e complesso saggio, ha immortalato, pure sul sito di Dagospia. Ha innalzato il luogo, e infinitamente riproducendolo lo ha devastato. “A Capalbio è inutile andare – ha emesso verdetto – perché le foto che puoi scattare a Capalbio sono foto di sfigati, trombati, vecchi cetacei di una vecchia sinistra radical-chic che il nostro caro Matteo ha passato al tritatutto”. Così disse.

 

E dunque è giunta, alfine, la rottamazione fin sul bagnasciuga dell’Ultima spiaggia – quella lingua di sabbia (le cronache degli anni passati ne fornivano le esatte misure come per il montaggio di un armadio dell’Ikea: centotrenta metri di arenile, venti cabine, dieci tende, centoquaranta ombrelloni; e le esatte postazioni, ombrellone per ombrellone, come per l’assemblaggio di un comodino sempre Ikea: “Martelli il 10, Mentana il 50, Marramao il 61, i Rutelli il 31, Asor Rosa viene solo a giugno. E’ tornata Bianca Berlinguer con Manconi, i La Malfa non sono mai andati via. Ci sono Bianca d’Aosta e Claudia Gerini, ma non si conosce il numero degli ombrelloni”, parbleu!) ove il meglio della patria inteso come pensiero e azione e figura morale prendeva i bagni di mare e disseminava saggezza sulla riva come scia di piccole conchiglie. Su quella striscia di sabbia, a motivata ragione, avrebbero potuto dire i migliori tra quei bagnanti ciò che Ciriaco De Mita diceva nei suoi anni felici dei suoi concittadini: “Gli irpini rappresentano il 70 per cento dell’intelligenza nazionale” – non uno zero virgola zoro due in meno, credibilmente, lì a Capalbio (e siamo perciò già al centoquaranta per cento dell’intelletto della penisola: ce n’è d’avanzo). Ecco, quello screanzato fiorentino con ministresse su tacchi alti e pischelli scravattati come in piscina di quartiere, ha dunque realizzato coi cingolati suoi, dice Pizzi cui adesso si ammoscia e cade l’obiettivo, lo sbarco sulla sua regional-casareccia   Omaha Beach? Chissà. Fatto sta che nella piazza Magenta del borgo (dove ovviamente si presentano libri, pur senza mai raggiungere il tetto di quelli scritti dall’uditorio) dove l’anno scorso, giustamente, si celebrava solennemente e solennemente si premiava Eugenio Scalfari (premio “Il piacere di leggere”) per il Meridiano Mondadori (“piazza straripante”, annotavano le cronache) dall’esemplare titolazione, “La passione dell’etica”, appena qualche giorno fa (stesso palco/stessa piazza/stessa spiaggia/stesso mare) veniva presentato il volume di Annalisa Chirico dall’esplicita titolazione “Siamo tutti puttane”, persino con arrivo variopinto di Solange (sensitivo, diobono!) che leggeva le mani – linea della vita, linea del cuore, linea della rottamazione. Avatar a chiara caratura renziana,  raccapricciante rimbombo di tacchi sul palco, ormai all’assalto del pacifico pianeta maremmano di Pandora – triste dissolvimento dell’Eden di “falce e secchiello”. 

 

Il libro che rivelava il fraterno lancio di residuati di anguria – imperdibile per chiunque abbia care le memorie capalbiesi: “L’era del cinghiale rosso”, uscito qualche anno fa – l’ha scritto Giovanna Nuvoletti in Petruccioli (compagno Claudio, avvistato con cavigliera brasiliana dall’Espresso scambiata per oro; “al suono di cavigliere del Katakali”, invocava Battiato, che pure il cinghiale cantava, bianco però): e si capisce come “cinghiale rosso” abbia immediata assonanza con “dinosauro rosso”, di specie morente e spiaggiata che va ad estinguersi, sorta di Jurassic Beach vista Tirreno, dove la mutanda da bagno ha sempre dignitosa conformazione, il telefonino (quando c’è) dignitosa suoneria, la conversazione come il gossip dignitosa elevazione. Il libro, tra realtà e finzione,  parte dal ’77 – gli albori dell’epica capalbiese, e così si annunciava all’orizzonte la futura allocazione, già in rapido assembramento di intellettuali e comunisti, postaccio “de  morti de fame, pezzenti.

 

Ce vanno perché le case te le tirano dietro pe’ ddu’ mele e ’n zacco de patate!”. Ci fu l’incanto di un’era (quando, per esempio, in zona si recavano l’incantevole Giovanni Urbani, la musicale Lucia Campione, stelle negli occhi dei cani di Giosetta Fioroni) – quel rurale che un po’ eleva, quella parsimonia che un po’ innalza. Apripista, il critico marxista Carlo Muscetta – poi la transumanza di massa ebbe inizio, di massa per modo di dire, pure dalla ben considerata Fregene, ove fu lasciato al suo accanimento laziale un solitario Alberto Ronchey. Quasi una rassicurante sospensione rispetto al mondo esterno – stretti tra l’Aurelia e la Versilia. La svolta venne da un bacio – “il bacio di Occhetto che anticipò la svolta”, titolò il Corriere della Sera, altro che Bolognina. Era l’88, il Muro lì stava. Il nuovo segretario del Pci (che eccelleva in zona, secondo le cronache, nella preparazione del pesce al formo in salmoriglio) si fece fotografare da Elisabetta Catalano presso un casale capalbiese, mentre teneramente poggiava le sue labbra ombreggiate di baffi su quelle di sua moglie Aureliana. Foto pubblicata sul Venerdì di Repubblica. Fu il cambio di passo – che dalla Maremma alla sinistra tuta si irradiò. Ha rievocato, sempre sul Corriere della Sera, Maria Luisa Agnese: “Anche la sinistra poteva amare e commuoversi, si scopriva più umana, godereccia e ballerina, e gran cornice di tutto ciò divenne proprio l’hinterland capalbiese. Lì a poco a poco si danno appuntamento per le nuove estati intelligenti le menti ideologiche della Repubblica, da Alberto Asor Rosa a Giacomo Marramao a Claudio Petruccioli ad Aldo Tortorella, scatenati in discussioni sulle sdraio dell’Ultima spiaggia, stabilimento balneare di riferimento, ma anche in tornei rock, in partite di ping pong, in gare culinarie, benedette dal gran finale con sfide a bucce d’anguria” – e riecco la fruttifera tenzone, vero classico.

 

“Qui inciampi sempre in qualcuno”, si diceva fino all’estate scorsa: magari Napolitano (ne ebbe cittadinanza onoraria nel 2007, con in dono centrotavola di ceramica eseguito dalle locali artigiane), Giuliano Amato a volte, Furio Colombo, in larghe e comode braghe, assieme ad Alice Oxman (che ordina “spaghecci con le vongoley”, poi mangia gli spaghetti “ma lascia con cura nel piatto tutte le vongole”), Umberto Veronesi (assaltato dai fumatori), rapido transito di Lilli Gruber, Bassanini & Lanzillotta, Fabiano Fabiani, Luciana Castellina, Chicco Testa, le più sospirose e ispirate attrici nostre dallo sguardo pronto per Medea, Mario Missiroli, Veltroni e Fassino, i Rutelli, lui “dagli occhi smeraldini”, Barbara “fisico da pin up e viso da bambola”, ecc. ecc… C’era più roba lì che alla finale dello Strega nel famoso e afoso ninfeo. La domenica, Gene Gnocchi sfotteva e cantava in diretta tivvù: “Pomeriggio d’agosto in spiaggia a Capalbio, per capire le nuove tendenze radical-chic”. Che poi: gli anni scavano, i costumi mutano, gli assembramenti aumentano. E dietro le belle ed espressive e pensose facce, segnala la protagonista del libro di Giovanna Nuvoletti, “si scorge un carnaio umano, nonne obese con nipotini, corpi avviluppati, gambe, torsi, canotti, bagnanti affastellati a mezz’acqua. Dietro a un Alberto Asor Rosa vestito di tutto punto, con borsello e scarpe da tennis, si leva un muro compatto di lettini e ombrelloni senza soluzione di continuità”. L’asciugamano firmato piuttosto che quello etnico, la sconsacrazione di uno zotico mojito piuttosto che il rassicurante morellino. Il cafone ad alto volume. Persino, in zona sia detto con rispetto parlando, il Giornale (quello, di Giornale) ha potuto annotare con Luigi Mascheroni che “il capalbiese doc è mutato: da intellettuale cinghialato con dieci quotidiani diversi nella borsa marocchina al burino arricchito, col telo firmato”. E qui siamo arrivati, all’era del “cinghiale rosso” costretta a restringersi per far spazio al vorace “burinal-stronz” di recente insediamento e definizione. L’inferno in spiaggia, insomma – la penombra di una Torvajanica su tanta sapienza e savoir-faire. Un Topolanek (con relativo armamento minacciosamente in vista) all’orizzonte?

 

A forza di star sempre sulle cronache, spesso settore “Portfolio” – fino all’abbandono or ora decretato da Pizzi: annamo, nun je frega più un cazzo a nessuno – il rischio di un certo imbaldracchimento (essendo che un po’ mignotte siam tutti: si sa e, ormai pure a Capalbio, si legge) si è affacciato. Se il nome diventa brand, se il posto diventa cool, la perdizione è dietro l’angolo, l’anticristo in marcia, l’esorcista necessita. Philippe Daverio, anche se adesso sconfinato verso Tarquinia, ebbe felice intuizione nel definire, all’alba della sorgente civiltà capalbiese, la preziosa enclave – al principio in condominio con zanzare e butteri – incrocio tra Pian della Tortilla e il villaggio di Asterix. E come il villaggio del piccolo gallico, Capalbio si difende, prova ad animare la resistenza, sfugge all’invasore che ogni tanto – con naviglio dal mare, con Suv da macellai benestanti dalla terraferma – azzarda lo sconfinamento  in zona. Senza contare che è tutto un parapiglia, fiorire di querele e infuocate interviste e paginate di giornali, per questioni di autostrade in loco, impianti biogas a ridosso dei casali, villette progettate sul delicato profilo dell’orizzonte. Particolarmente e felicemente pugnaci, sulle tristi faccende, sono risultati Colombo e Asor Rosa – che poi la definizione sua di quasi trent’anni fa di “Toscana felix” il professore già nel decennio corresse e precisò, “oggi dovrei dire Toscana in bilico”. Come per Asterix, s’intuiscono minacciose sul borgo le ombre degli accampamenti SPQR e borghesi/borgatari di Aquarium e Petibonum – e a volte la lotta si fa aperta, a volte lo sdegno porta a defilato silenzio. Così ognuno, nella difesa non meno ardita che meritoria, Asterix si fa. Ognuno, come Panoramix, distilla la sua pozione magica di resistenza. Ognuno, come Obelix, trascina il peso del menhir dei giorni più felici.

 

Ognuno, come Abraracourcix, teme che gli possa cadere il cielo sulla testa. Ci furono, nello sfoglio democratico e nel riflessivo ruminare sotto gli ombrelloni dell’Ultima spiaggia, giornate epiche: come quando apparve persino il figlio di La Russa – il Geronimo, nientemeno – così che tutto un sussulto percorse il bagnasciuga, e babbo Ignazio minaccioso annunciava: “Ho spedito mio figlio a fare un sopralluogo. Ci piacerebbe occuparla militarmente, quella spiaggetta…”. Repubblica scrisse di apparizione “inquietante e inattesa”, il Corriere di “crudele metafora di sconfitta elettorale”. Ci sarebbe stato da partire con una raccolta di firme (pro-democrazia e pro-democratici bagnanti) di MicroMega, costituzionalisti e bagnini e defensor fidei uniti nella lotta, non fosse che quando Marco Travaglio giunse sulla battigia – con costume e secchiello e trolley e Peter Gomez – per presentare un libro, proprio gli storici bagnanti all’ammasso disertarono, un fuggi fuggi che manco alla vista del Geronimo stesso, non avendo a confondersi i cromosomi di differenti etnie nemmeno per un  rilassante intermezzo tra palco (di presentazione) e realtà (di spiaggia). Il quale Travaglio, saldamente a riva, al solito trasse dal mesto evento esemplare insegnamento: “Alle nostre presentazioni venivano intellettuali, giornalisti; adesso gli scrittori sono scappati, vengono soprattutto ragazzi…”, beata gioventù. Pur se il rischio più serio, forse, fu corso quando, là ove una  volta il buttero si levava, apparve di colpo – mirabil visione!, generale batticuore! –  il regista iraniano Abbas Kiarostami, bravissimo e tediosissimo cineautore da Palma d’oro a Cannes: “Qui girerò il prossimo film”. Roba da sabba di felicità sull’Ultima spiaggia. Non se ne fece nulla – pur se il sapore della ciliegia lì a Capalbio è sempre ottimo, persino meglio che a Teheran. Per tacer di quello delle angurie.

 

Capalbio ha occupato l’immaginario della sinistra (l’immaginario della sinistra è sempre piuttosto di manica larga) degli ultimi vent’anni – “ah, i radical chic!”, sospiravano quelli che pensavano di essere gli ultimi fedeli interpreti del buonsenso togliattiano, vibranti di antico sdegno di fronte all’école capalbienne. Ma ha lungamente occupato pure l’immaginario della destra (l’immaginario della destra più che di manica larga è un vero sprofondo, un intero mar Mediterraneo), che con un piede sempre dalle parti di Gianna Preda (ma senza il bellissimo antimoralismo della scrittrice del Borghese, reazionaria senza essere oscurantista), ha ravanato un po’ da “fregnacciara” nei secoli dei secoli tra sinistra e champagne, sinistra e caviale, sinistra e ostriche, più altri ammassi politico-gastronomici. Tutto un lussureggiante pasteggiare alle spalle e alla faccia e a ridosso del culo dell’onorata non meno che affamata classe operaia, tutti simil-arditi a fare i Trilussa minori, “che pranzo! Che cuccagna! / Li tappi de sciampagna / ariveno ar soffitto:::”– che poi in fondo volavano più “còcce” di cocomero che gusci di ostriche, piuttosto cozze che altro. Ma adesso lo stesso Pizzi tira giù la saracinesca. Smonta l’obiettivo. Requiescat in pace – sulla  sdraio  e sulla calda sabbia. Come se Capalbio fosse definitivamente destinata a diventare spiaggia come un’altra – “vamos a la playa / todos con sombrero”, semplici membra al sole come quelle di Ischia e Tropea. O forse sarà così da adesso in poi, metà e metà: Asor Rosa con le sue scarpe da tennis e insieme Barbara D’Urso che lì in villa si è sistemata – e già il suo libro “Ecco come faccio” in loco ha presentato: “E’ una delle domande che mi sento fare più spesso: ma come fai a essere sempre così in forma, energica, a rimanere così giovane?”. Pure se il quesito è fondato, lo stesso qualche mancamento, tra sabbia e macchia maremmana, si sarà registrato tra i più complessi pensatori in short e infradito (calzature di Asor Rosa a parte). Rassegnarsi allora, starà così Capalbio: senza Pizzi e come il corpo del suo famoso bandito, Domenico Tiburzi, che nel locale camposanto fu posto “per metà nel terreno consacrato / per metà nell’eterna perdizione”: un po’ inferno e un po’ paradiso, un po’ intellettuali e un po’ burini, qualche genio e qualche terreno. Con bacio a caratura (ancor per poco) comunista la storia si aprì; con morsicata renziana si chiuse. E le bucce di cocomero adesso direttamente nel secchio. Dell’umido, suvvia – si sa.

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