La guerra senza strategia

Obama mischia il timore di un genocidio e ragioni di sicurezza nazionale per disegnare una traballante “red line” con cui giustificare un intervento molto poco interventista contro lo Stato islamico in Iraq

New York. Alle 6,45 di ieri mattina, ora di Washington, Barack Obama ha rimesso le mani nel teatro della “dumb war”, la guerra stupida che aveva promesso alla nazione di chiudersi alle spalle. Due caccia F-18  hanno bombardato l’artiglieria dello Stato islamico nei pressi della capitale curda di Erbil, nel nord dell’Iraq. A Erbil gli Stati Uniti hanno una significativa presenza civile e militare, e negli ultimi mesi, segnati dall’avanzata delle truppe del Califfato, il Pentagono ha mandato alcune centinaia di addestratori, membri delle Forze speciali e con un intenso lavorio di contractor ha fortificato e messo in sicurezza la base operativa della Cia nel complesso dell’aeroporto. Le foto satellitari mostrano una base attrezzata da cui possono partire attacchi aerei, gestita in coabitazione da americani e curdi. L’arrivo dello Stato islamico a tiro di artiglieria ha cambiato i calcoli del presidente riluttante, che giovedì sera ha autorizzato l’esercito a condurre attacchi aerei contro gli obiettivi dello Stato islamico, “se necessario”. Poche ore dopo i caccia hanno sganciato bombe a guida laser sulle linee nemiche. La Francia ha dichiarato il proprio sostegno all’azione americana, e diverse fonti dicono che i caccia francesi partiti dalle basi giordane sono già in azione.

 


Obama ha giustificato l’intervento militare mischiando in modo ambiguo ragioni umanitarie e di sicurezza nazionale. La disperata fuga di 40 mila yazidi sulle montagne attorno a Sinjar impone all’America di “prevenire un potenziale genocidio”, e per questo l’America sta paracadutando aiuti umanitari nell’area, ha detto Obama, chiarendo però che lo scopo delle azioni militari mirate è quello di “fermare l’avanzata verso Erbil”. Obama ha sempre rifiutato la dottrina dell’intervento militare per motivi umanitari e nel discorso di West Point a maggio ha chiarito che l’unica condizione per un’operazione militare è una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. Salvo eccezioni, s’intende. Nel 2011 in Libia ha ordinato un attacco il cui scopo dichiarato non era il regime change ma evitare “un massacro che macchierà la coscienza del mondo”; oggi in Iraq presenta il rischio di un genocidio come aggravante, non come fattore scatenante, anche se il dipartimento di stato spiega che “il mondo non può guardare innocenti morire”. La battuta cinica e inevitabile l’ha fatta l’analista David Rothkopf: “Ci sono oltre 150 mila siriani morti che si chiedono cos’hanno gli yazidi che loro non hanno”.

 

Nella guerra in Siria la “red line” fissata dall’Amministrazione per un intervento armato era l’uso di armi chimiche, cosa puntualmente avvenuta e ignorata, e la linea rossa è scolorita nell’inazione. Nel nord dell’Iraq la linea rossa sembra essere a metà fra il timore di un genocidio (Obama non vuole un nuovo Rwanda sulla coscienza) e ragioni di sicurezza strettamente circoscritte. L’obiettivo dei bombardamenti non è sradicare lo Stato islamico, né fermarne l’espansione, ma sradicarlo e fermarne l’espansione in una specifica porzione di territorio. Come dire: se i soldati di al Baghdadi lasciano perdere Erbil, l’America non reagirà, e sul resto del territorio lascerà l’incombenza alle forze irachene, note per le diserzioni di massa. Non è l’inizio di una campagna più ampia, insistono i funzionari dell’Amministrazione. Non è lo scontro a sfondo morale contro un “nemico messianico che non si fermerà”, come dice l’ex ambasciatore Ryan Crocker; non è soltanto una campagna umanitaria e nemmeno un’azione esclusivamente difensiva. Si sa soltanto cosa non è.