Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama (Foto Ap)

Il disordine e la tempesta perfetta

Antonio Pilati

Leadership in ritirata sui valori e dominio del debito in economia. La svolta strategica di Obama, l’eclissi delle alleanze di civiltà.

Nei 70 anni che corrono dalla fine della Seconda guerra mondiale non si era mai verificata nelle relazioni internazionali una congiuntura di così aspro disordine come l’attuale. Sono accesi, in un’area cruciale del mondo a forte interconnessione e ad alta densità nucleare, un gran numero di conflitti cruenti: Ucraina, Libia, Sahara e dintorni, Nigeria, Somalia e Kenya, Grandi Laghi e Zaire, Gaza, Siria e Iraq, Afghanistan. Nel Far East, dalla Corea del nord alla Birmania, la tensione è molto alta, anche se al di sotto della soglia bellica. Varie economie sono in emergenza, per debito (Argentina, sud Europa) o per sanzioni (Russia, Iran). Dopo il crollo della disciplina imposta con la deterrenza nucleare dalla Guerra fredda che allinea gli stati in campi contrapposti e dopo l’esaurimento del successivo assetto unipolare, gestito con equilibrio dalle presidenze Bush senior e Clinton, non si delinea un nuovo quadro di stabilità ma si inaugura una fase di crescente incertezza che culmina nel 2008 con lo scoppio di una crisi finanziaria di rango planetario e con l’avvento alla presidenza statunitense del democratico Barack Obama.

 

Il processo che sottende, come presupposto e come fattore d’innesco, la dinamica del disordine politico è l’integrazione mondiale dei mercati, dei sistemi produttivi, delle attività finanziarie: la globalizzazione implica più soggetti politici in grado di dare scala operativa e risorse ai propri obiettivi, più interessi e più temi d’azione introdotti nell’arena internazionale, più eventi capaci di interferire nelle relazioni fra stati. E’ un salto di complessità che porta con sé incrementi di incertezza (quindi di rischio) e richiede, per essere trattato e ricondotto a ordine, crescente intensità decisionale: più capacità di coalizione, più efficacia di indirizzo strategico, più responsabilità. Con l’avvio del nuovo secolo, tuttavia, l’integrazione globale prende un corso diverso, anzi contrario.

 

Due elementi, in particolare, sembrano affievolire la capacità decisionale, la visione strategica che la politica esprime su scala mondiale. In primo luogo la forma della globalizzazione è sempre più modellata dal debito e ne introietta vincoli, condizioni, riflessi gerarchici: la sovracapacità produttiva, che si alimenta con l’ingresso nei mercati di tanti nuovi soggetti sospinti da energie fresche, preme per spianare la via del credito a chi acquista, famiglie anzitutto; le promesse della tecnologia, amplificate dai successi della rivoluzione digitale, trascinano in molti stati gli investimenti delle imprese e gonfiano oltre misura il valore dei loro asset; infine l’instabilità politica connessa alla fragilità dello schema unipolare e il crescente carico (demografico e ideale) del welfare nei paesi più ricchi espandono la spesa pubblica (militare, previdenziale, sanitaria) oltre i limiti di imposizione fiscale socialmente accettabili.

 

Il debito contrasta con la libertà creativa della strategia politica: implica obblighi, crea dipendenze, irrigidisce l’azione. In alcuni casi ne sono preformate le stesse relazioni fra gli stati: succede fra Stati Uniti e Cina, oppure all’interno dell’Unione europea, che sempre più si configura come un’Unione del debito, soprattutto fra Germania e grandi debitori (Italia in primis). Si rende più complesso il riassetto di potenza che si snoda all’inizio del millennio quando lo schema unipolare mostra la sua insufficienza a tenere un ordine stabile.

 

In secondo luogo, con l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Barack Obama (2008) la nazione leader sceglie di lasciar cadere, senza difenderlo, lo schema unipolare già incrinato e di non porsi più come bilanciatore di potenza e risolutore di crisi, rinunciando a quel ruolo di responsabile globale dell’ordine internazionale che aveva assunto almeno dal 1946. Si possono allineare molti motivi per spiegare una svolta così radicale: i costi gravosi e gli esiti scadenti della responsabilità globale in epoca unipolare; i vincoli di bilancio sempre più stringenti; una propensione, largamente diffusa nella vita sociale, a ripiegare su una interpretazione più ristretta dell’orizzonte nazionale e della sua proiezione all’esterno; infine, forse più importante di tutti, il progressivo imporsi nell’élite americana di un’autorappresentazione benevolente, meno centrata sulla potenza che sull’estetica dei diritti umani e della democrazia elettorale.

 

Per la potenza leader che si autolimita cambiano gli obiettivi strategici e la loro gerarchia. Perdono peso, in primo luogo, i vincoli inerenti ad alleanze basate su comuni visioni di civiltà e acquistano rilievo utilità contingenti derivate da interessi di congiuntura. A ciò si possono ricondurre molte fra le linee di condotta seguite da Obama in questi anni: anzitutto l’ampio uso di deleghe operative trasmesse ai soggetti più vari (Fratelli musulmani, Qatar, Francia, Turchia) per ordinare intricate situazioni di conflitto con costi americani (politici, finanziari, d’immagine) portati al minimo (leading from behind); quindi il ricorso, piuttosto frequente, ad accordi con i nemici, ovvero con i soggetti politici più lontani per tradizione ideale e traguardi di potenza, in modo da trovare o realizzare, in situazioni complesse, scorciatoie e soluzioni abbreviate (Iran per dare una qualche disciplina al disordine del medio oriente; Cina per tenere sotto controllo l’emergenza finanziaria); infine la svalutazione degli alleati di lungo periodo (Arabia Saudita, Israele, Europa) costretti, quando gli Stati Uniti aprono ai nemici o all’improvviso cambiano obiettivo, a ridurre ambizioni, strategie, impulsi autonomi. In secondo luogo si estende l’impiego della costrizione finanziaria manovrata in varie modalità (sanzioni, accordi bilaterali, promozione di aree commerciali) come leva per disciplinare i comportamenti di alleati e nemici: la crescente interconnessione dei mercati porta danni quasi a ogni soggetto politico quando gli Stati Uniti fanno deterrenza nell’ambito dove maggiore è lo squilibrio di potenza a loro favore (ruolo del dollaro, dimensioni delle operazioni). Inoltre lo strumento finanziario – asettico, indiretto, mediato da filtri giuridici – è di uso molto agevole: costi modesti, scarso impatto d’immagine, responsabilità diluita. 

 

Nel sistema internazionale la riduzione di responsabilità della potenza leader e la rigidità della globalizzazione modellata dal debito provocano effetti a catena: diminuiscono e si debilitano i nessi di lungo periodo (basati per lo più su legami ideali ovvero di civiltà) e prevalgono affinità contingenti definite da interessi di congiuntura; le alleanze si compongono e scompongono con grande facilità e rapidità; i vincoli posti ai soggetti sono più labili e il tasso di prevedibilità del sistema scema; gli outsider hanno campo più agevole per operare; gli stati mercantilisti come Cina e Germania, organizzati per generare surplus e quindi collocati in posizione favorevole nella gerarchia del debito, scoprono di avere le migliori chance  per sfruttare a fini di potenza l’ampia scomposizione di rapporti in corso.

 

La Cina si comporta come il potenziale egemone di domani: diventa sempre più assertiva nel cortile di casa, allarga senza sosta la platea degli stati resi clienti (o come detentori di materie prime o come tappe costiere di un’estesa espansione marittima verso occidente: la collana di perle), evita di stringere alleanze stabili e coltiva essenzialmente nessi di convenienza (commerciale con la Germania, finanziaria con gli Stati Uniti, energetica con la Russia o l’Iran). Per un gran numero di stati è un partner ingombrante ma, dati i vincoli economici, obbligato. La Germania, impugnando come un’arma di costrizione l’apparato normativo dell’Unione europea che a Maastricht per un drammatico errore politico François Mitterrand le aveva consegnato con l’idea di costruire una gabbia per l’economia più forte del continente e con il risultato invece di darle un ulteriore vantaggio, punta a trasformare l’area europea da luogo di integrazione paritaria a campo di un’egemonia nazionale (surplus elevato e costante, moneta forte su misura, nessi complementari a senso unico) che abbassa le economie contigue ad appendici tributarie. La fortezza Europa, normalizzata secondo un canone teutonico, si rende autonoma dal coordinamento atlantico e punta la sua espansione verso oriente cercando di indirizzare – grazie anche alla tenaglia cinese – l’ambiente slavo (come da tradizione).

 

I perdenti dello status quo

 

Chi invece patisce sono gli stati che o hanno definito da sempre la propria posizione in connessione con l’azione di indirizzo strategico degli Stati Uniti o l’hanno utilizzata in chiave di bilanciamento verso altre consistenti forze. Tutti i principali stati europei subiscono svantaggi a causa dell’impianto di mercantilismo deflazionista vigente, per volontà della Germania, nell’Ue: ciò risulta non solo nella contrazione delle economie difformi dal modello ma anche nella riduzione degli spazi politici provocata dallo scontro di prospettiva con gli Stati Uniti. Incontra crescenti difficoltà il Patto transatlantico per il commercio, proliferano dalla Catalogna alla Scozia gli impulsi di secessione dentro i confini nazionali, la Gran Bretagna è spinta sull’orlo dell’uscita dall’Ue, prendono il sopravvento in molti paesi i sentimenti anti europei, si assesta in chiave di conflitto il fondamentale rapporto con la Russia. Ed è Mosca appunto la potenza veramente danneggiata dall’evasione di responsabilità degli Stati Uniti. Messa in tensione conflittuale con il suo fondamentale background europeo e vessata dalla miopia strategica americana che la considera un partner minoritario destinato tuttora a scontare la sconfitta storica del 1991, si vede obbligata a fare accordi sulle materie prime e sullo spazio asiatico con la Cina che in realtà è il suo antagonista strategico.

 

Sono evidenti i pericoli di una situazione che si frammenta sempre più, soprattutto dal lato occidentale. Il primo, forse il più grave in prospettiva, è la frattura nel mondo atlantico, con la Germania che, dopo aver allineato l’Europa, ritiene di tutelare meglio l’interesse nazionale – ridefinito dal rafforzamento economico – mediante una strategia di alleanze contingenti, sia di base mercantilista (Cina) sia di respiro storico (Russia). Il secondo è l’allontanamento dall’occidente della Russia che probabilmente considera sciagurato un tale esito ma certo non è disposta a pagare senza fine il crollo dell’Unione sovietica: il cosmo occidentale, unificato infine dalla radice cristiana, si frantuma in parti diverse che vanno a scontrarsi senza una visione strategica. Risale indietro nel tempo la tradizione dell’accordo tra qualche potenza cristiana e i turchi: tuttavia oggi il mondo non è più compreso entro i confini d’Europa e il confronto delle civiltà annovera un numero di soggetti molto più ampio. L’ultimo pericolo è il grande vantaggio strategico dato, nel disordine attuale, alla Cina che, forte del rapporto privilegiato (su base finanziaria) con gli Stati Uniti, può aggiungerne altri – in forma cumulativa o selettiva – con la Germania e i suoi partner minori in Europa e con la Russia.   

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