Il primo ministro ungherese Viktor Orban (Foto Ap)

Democrazia gaglioffa? Lo pensa Orbán, ma anche il direttore dell'Economist

Alessandro Aresu

La democrazia non dura mai a lungo. In poco tempo si rovina, si logora e si ammazza. Non c’è mai stata una democrazia che non si sia suicidata”. Il premier ungherese Viktor Orbán? No, a parlare è John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti.

La democrazia non dura mai a lungo. In poco tempo si rovina, si logora e si ammazza. Non c’è mai stata una democrazia che non si sia suicidata”. Il premier ungherese Viktor Orbán? No, a parlare è John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti, ripreso dalla coppia dell’Economist (John Micklethwait, direttore, Adrian Wooldridge, penna di Schumpeter) nel loro libro “The Fourth Revolution. The Global Race to Reinvent the State” (Penguin Press). Dall’inizio dell’èra democratica si discute dell’inefficienza della democrazia, ma pochi l’hanno fatto con la chiarezza di Samuel Huntington nel suo contributo al rapporto della commissione Trilaterale del 1975, che poneva l’eccesso di democrazia in contrasto con la governabilità. Per la sua franchezza, Huntington si è guadagnato l’odio dei complottisti, ma le sue analisi restano attuali in un’epoca di onde contro-democratiche, analizzate ormai da numerosi saggi, tra cui “Democracy in Retreat” di Joshua Kurlantzick.

 

“The Fourth Revolution” si inserisce nella discussione su fatica democratica e sfida autoritaria, ma è anzitutto un libro dedicato allo stato anglosassone e alle sue tre rivoluzioni: l’ascesa dello stato nazione con Hobbes, lo stato liberale di Mill, il welfare state di Beatrice Webb. La rivoluzione della fine del Novecento di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, per Micklethwait e Wooldridge, è stata invece incompiuta. Ecco la prima provocazione interessante: in realtà, l’occidente non ha subìto una “rivoluzione neoliberista”, ma solo una mezza rivoluzione. La filosofia dei servizi pubblici non è cambiata radicalmente. La marcia della burocrazia e della spesa pubblica non si è arrestata. Si potrebbe aggiungere che di mezza rivoluzione in Italia ne è avvenuta un centesimo. Mentre Mariana Mazzucato aggiunge Matteo Renzi ai lettori de “Lo stato innovatore”, l’Atac di Roma – società comunale del trasporto locale – accumula imperterrita le sue perdite. Mentre l’occidente è stato incapace di alimentare una quarta rivoluzione e per 25 anni ha previsto il crollo imminente della Cina, l’alternativa asiatica vive a Singapore e a Pudong. Se la forza della democrazia è la sua adattabilità, deve dimostrarlo. Come? Trasformando radicalmente uno stato che ha perso il monopolio sull’informazione, che deve digitalizzarsi di corsa e imparare da figure come il chirurgo Devi Shetty, artefice delle economie di scala ospedaliere in India. La seconda provocazione del libro è presentata come un dato di fatto: il futuro sta nello stato, nella capacità di reinventarlo. Riassunto delle puntate precedenti: per anni abbiamo considerato lo stato un oggetto del passato, spazzato via dall’Onu, dalle corti internazionali, dalle organizzazioni non governative e compagnia. Erano stupidaggini. Lo stesso Francis Fukuyama, dopo “la fine della storia”, si è imbarcato in una storia globale dello stato in due volumi. Presto lo troveremo a Roma, nella Biblioteca di Palazzo Spada. Insomma, lo stato rifiuta di levarsi di torno. Perciò è inutile protestare, siamo condannati a farlo funzionare.  

 

La quarta rivoluzione dell’Economist gronda di innovazione (la nuova parola buona per tutte le stagioni, che quindi non vuol dire nulla), ma presenta tre spunti utili per l’Italia. Primo: la svolta locale. Anche “The Fourth Revolution” si affida alle città per curare disfunzionalità e indecisioni del governo centrale. Servirà a qualcosa solo con cambiamenti profondi (leggi: capitalismo municipale) e continuità nel governo centrale, altrimenti si faranno altri danni e debiti. Secondo: meno normese. Di certo, lo stato affonderà se continuerà a parlare quest’unica lingua consunta. Da anni dovremmo chiederci “quali risultati abbiamo ottenuto?” e non “facciamo un’altra normetta?”. Non bisogna imparare altre lingue solo in nome di big data e app economy, ma anche per parlare, con troppo ritardo, il linguaggio delle medie imprese che tengono in piedi questo paese. Terzo: la difficile quadratura del cerchio tra conoscenza e politica. Se in oriente il primato della politica si basa sulla conoscenza, in occidente gli enarchi non scuotono affatto la Francia, gli accademici commissioneggiano e i lamenti delle élite non partoriscono rivoluzioni. Preferiamo essere governati dai Draghi più che dai Fiorito, ma tocca ancora alla politica reinventare lo stato. E chi era più politico dell’uomo nell’arena, Teddy Roosevelt, eroe del “vero progressismo” cercato dall’Economist? 

 

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