Sergio Marchionne (foto LaPresse)

La Fiat non ha patria ma è guidata da manipoli del centro-sud

Giuseppe De Filippi

Il triangolo industriale non c’è più e certamente non vuole tanto bene alla Fiat e a Torino. A Genova sono un po’ snob e poi hanno altro da pensare. I milanesi sono antipatizzanti da sempre verso il giro Fiat e infatti pagano volentieri il mark-up tedesco e guidano le Audi.

Il triangolo industriale non c’è più e certamente non vuole tanto bene alla Fiat e a Torino. A Genova sono un po’ snob e poi hanno altro da pensare. I milanesi sono antipatizzanti da sempre verso il giro Fiat e infatti pagano volentieri il mark-up tedesco e guidano le Audi. Ma anche fuori dal triangolo c’è distacco per le vicende torinesi, i veneti si distinguono dai milanesi solo perché, tra una tirata anti euro e un’imprecazione contro Merkel, invece che per le Audi sono per le Bmw, ma sempre felici di pagare il margine di prezzo in più determinato dal fideismo nell’efficienza teutonica.

 

Gli emiliani ci sono, ma per loro l’automobile è un’altra cosa, non da produzione di massa. In Toscana c’è un fantastico costruttore che di automobili ne fa sei, bellissime, all’anno. Ma poi, quanto ad automotive (a quattro ruote), si fermano lì.

 

Per le ragioni elencate, e per un’altra serie di cause che vedremo più avanti, è successo che la Fiat, ancorché americana, olandese, inglese, è diventata un’azienda a guida italiana meridionale/centro-meridionale. Lasciate stare la parte ingegneristica, dove ancora domina il Politecnico di Torino (ci sono sostanziali apporti anche dalla facoltà di Ingegneria di Napoli, che alimenta il Polo aerospaziale ma sviluppa anche competenze nell’automotive, mentre in Puglia si studiano e sviluppano le nuove soluzioni motoristiche). Nell’ingegneria Fiat, nella ricerca, si sente ancora un po’ di accento piemontese. Ma guardiamo al cuore dell’azienda, alla sua parte commerciale, cioè a chi deve vendere le macchine. Di Sergio Marchionne abruzzese/canadese sappiamo tutto. Ma vediamo un po’ di nomine recenti e quasi recenti, ovviamente promosse da lui, ed ecco una lista che compendia quasi tutto il centro-sud.

 

Il capo operativo per tutta l’area Europa, medio oriente e Africa (Emea) è Alfredo Altavilla, tarantino. Cinquant’anni, studi a Milano ed esperienze in mezzo mondo. E il capo del brand Fiat per la stessa zona è Gianluca Italia, siciliano di Siracusa (ma con molti anni negli Usa, nell’azienda di suo padre). Quarantadue anni, studi all’Università di Messina e poi alla Central Connecticut State University. Esperienza di successo in quelle che ora sono diventate le sorelle di Detroit del gruppo, Ford e Gm, poi alla Saab in Italia e quindi la chiamata di Marchionne alla Fiat. Mentre a guidare la consorella Mopar (tutti gli accessori della Casa, funzionali ed estetici, quello che tecnicamente si chiama aftersales) è Fabrizio Curci, di Barletta, bocconiano, 41 anni. E per le aziende che vogliano acquistare vetture Fiat-Chrysler per le loro flotte e tutto il settore dell’usato, il responsabile è un romano, Enrico Atanasio (già punto di riferimento dell’azienda in India). Il capo dello sviluppo del prodotto è un altro romano, Daniele Chiari. A guidare la finanza, sempre per l’area Emea, è un chietino, Andrea Striglio. E, giusto per dare uno sguardo, ai manager d’esportazione, ecco che in Austria, a dirigere le operazioni aziendali, c’è una giovane napoletana di 36 anni, Maria Grazia Davino.

 

Ci vuole l’eccezione, ma come tale va analizzata. Perché Fca ha marcato un bel colpo di scouting proprio in questi giorni. Con l’arrivo, come responsabile della comunicazione del brand Fiat nell’area Emea, di Maria Conti. Milanese, tanto per smentirci, e non basta che dica di avere il sud nel cuore. Di provenienza Bmw, dove ha inventato il marketing, di enorme successo, del fenomeno Mini. Insomma nella ideale posizione strategica per tentare di fare la pace con la clientela antipatizzante ma più appetitosa. Quelli, per capirci, che dicono: “No, una Fiat non la comprerei, ma una 500 quasi quasi sì”. Solo una milanese ha le chiavi per scardinare certe resistenze, per aggirare simili fissazioni. E magari trasformare il rifiuto di un marchio e di un produttore in un innamoramento.

 

Marchionne e Altavilla hanno assortito la loro squadra Emea di storie diverse. Ci sono più marchi da vendere, più prodotti. E c’è da formare dirigenti da portare anche negli Usa e sugli altri mercati. In grado di integrarsi in un gruppo mondiale, operazione che, è sempre utile ricordarlo, non è riuscita, proprio per incapacità di dialogo, ai tedeschi della Daimler. E la scoperta è che il terreno migliore dove trovare quei dirigenti è nella parte d’Italia che, per ragioni storiche, è rimasta comunque legata ai simboli della fabbrica torinese e che ha avuto la capacità di andare nel mondo, faticosamente, a lavorare. Per chi lo vuol capire c’è anche un richiamo alla tradizione della Casa. Perché con queste scelte dirigenziali e con gli accenti che, oltre all’inglese di ordinanza, si sentono nelle stanze dove si decide al Lingotto, siamo alla sublimazione dello snobismo agnelliano e non alla sua negazione.

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