Mario Balotelli segue Milan-Sampdoria dai palchi vip di San Siro assieme al fratello nel settembre 2013 (foto LaPresse)

Un calcio al look

Roberto Procaccini

Da Attilio Lombardo a Mario Balotelli. Come è cambiata in vent’anni l’estetica dei calciatori: non più idoli borghesi ma mostri di marketing. Boninsegna negli anni Settanta si faceva intervistare in cravatta nel salotto di casa, oggi Balo sembra un rapper scontroso.

Pensate alla rosa della Juventus del 1995, quella che ha appena vinto lo scudetto e che si avvia a vincere la Champions. Da una parte c’è Attilio Lombardo, ottimo centrocampista che a fine carriera può vantare tre scudetti con tre diverse casacche. Dall’altra Gianluca Vialli, potente bomber che pure in carriera se n’è tolte di soddisfazioni. Il primo, precocemente pelato, mantiene una chierica degna di un prete di campagna. Il secondo, con un passato da ricciolone, si rasa il cranio come Bruce Willis, muscoloso interprete di action movie hollywoodiani. Ecco, questi due giocatori non rappresentano solo due eccellenze del calcio italiano. Col loro modo diverso di vivere e interpretare la calvizie, testimoniano un salto epocale e antropologico: la trasformazione della figura del calciatore da uomo (spesso di estrazione medio-bassa) che attraverso la propria professione anela il riscatto sociale e l’adesione alla middle class, a personalità dello showbiz che, da star, impone il proprio ego e determina gli status sociali.

 

 

 

 

Mutamenti del genere non si innestano dall’oggi al domani. La rupture di Vialli ha radici profonde e altri Lombardo démodé calcheranno ancora i campi di calcio. Ciò che importa è che negli anni Novanta dà i suoi frutti un fenomeno partito nel decennio precedente e maturo oggi, quando il football è uno spettacolo alla pari del cinema e tutti, ma proprio tutti i suoi interpreti si sentono in dovere di fare i protagonisti. Addio a Roberto “Bonimba” Boninsegna, che negli anni Settanta era contento di farsi intervistare nel salotto borghese con foto di rito in giacca e cravatta, tra il televisore, la moglie e gli elettrodomestici che si convengono a una famiglia benestante. E benvenuto ai Mario Balotelli e ai Simone Zaza (rimanendo agli esempi italiani), tatuatissimi, con tagli di capelli spericolati, sempre vestiti casual. Ragazzi che, se si chiede a chi non li conosce di indovinarne il mestiere, possono essere agevolmente scambiati per interpreti della scena hip hop milanese.

 

E’ il calcio moderno, il luogo dove la cultura individualista, germogliata nei tardi anni Sessanta ed esplosa negli Ottanta nelle forme leggiadre dell’occidente post ideologico, si è miscelata alla società dei consumi con un’eco amplificata rispetto a quanto accaduto in altri comparti del consorzio umano. E’ la fucina dove l’ingrediente della spettacolarità, connaturato al football, è stato coltivato fino a diventare essenziale: pay per view, articolazione delle giornate di campionato per aumentare le esclusive televisive, riformulazione dei tornei continentali per moltiplicare squadre partecipanti e incontri, ipertrofia mediatica per alimentare un pubblico sempre più attento ed esigente. “Un meccanismo che ha gradualmente trasformato l’immaginario stesso legato al calciatore”, osserva Luca Bifulco, ricercatore di Sociologia dello sport della Federico II.

 

Il fenomeno è bilaterale e riguarda la stella del football e il suo ammiratore: “Il giocatore diventa star quando assume le caratteristiche dell’eroe, cioè della persona prestigiosa che incarna i valori di una comunità – spiega – Allo stesso tempo, però, sono cambiati i valori di riferimento della società. E’ cambiata l’etica: un tempo, se avessi chiesto a un passante ‘Chi sei?’, ti avrebbe risposto: ‘Un operaio cattolico’. Oggi ti dice: “Un amante del rock e della cucina giapponese’”. Ne consegue che, se l’attenzione del pubblico si è spostata sull’io, “anche i meccanismi di identificazione con l’eroe – prosegue Bifulco – si concentrano altrove: dal lavoro, ad esempio, si passa allo stile di vita”. Il fatto non è peregrino, perché il calcio non è uno sport impersonale, è anzi centrato (in proporzione a club e competizioni di riferimento) sulle prime donne. “Ci sono diversi tipi di eroe: quello trascendente, come poteva essere il Cavani dei tempi di Palermo e Napoli – sostiene il sociologo – oppure quello di rottura, che con i suoi gesti sovverte le consuetudini. Da questo punto di vista per gli argentini Leo Messi non sarà mai quello che è stato Diego Maradona. Fatto sta che il tifoso ha bisogno di eroi, perché gode in maniera riflessa della loro eccellenza”. E qui entra in gioco il marketing, qui prendono il sopravvento gli sponsor, motori molto mobili dello sport professionistico contemporaneo. “Queste caratteristiche rendono la star del calcio una persona carismatica – conclude Bifulco – al punto da far dire al supporter ‘faccio quello che fa lui’. L’eroe è un testimonial perfetto. Anche in passato i calciatori si sono prestati alle pubblicità, ma mai come oggi la celebrità è presto sfruttata in termini commerciali”.

 

Peccato che non tutti i giocatori siano eroi. La dinamica appena descritta, oltre che generare mostri egotici, ha divaricato in maniera esponenziale la forbice degli stipendi tra i (pochissimi) top player, come si definiscono oggidì i campioni globali, e i (tantissimi) giocatori comuni, ai quali nessun tatuaggio regalerà un futuro di gloria.

 

Luca Bifulco ha di recente dato alle stampe, insieme al collega dell’ateneo federiciano Francesco Pirone, il volume “A tutto campo” (Guida editore), lettura socio-economica del fenomeno calcio. A proposito dei paperoni del pallone, scrivono: “Si tratta di un nucleo ristretto di casi che producono un’immagine pubblica della professione tanto forte quanto fuorviante”.

 

Il mercato del lavoro del calcio professionistico, si legge nel tomo, è tradizionalmente segmentato: i giocatori si strutturano in una piramide dove in cima c’è chi ha tutto (diritti, tutele, ottima remunerazione) e alla base chi guadagna poco e può conoscere la disoccupazione. Tra i due estremi, degradano varie fasce distinte per qualità della condizione lavorativa. Oggi lo stesso mercato, per effetto della sentenza Bosman (che cancella i confini per i calciatori comunitari) e di quello che i teorici dell’economia sportiva statunitense già dagli anni 80 hanno etichettato come “effetto superstar”, ha conformazione duale. I campioni, contesi dai club più ricchi e prestigiosi, strappano contratti faraonici, mentre i giocatori di livello medio e basso annegano nella massa informe dei calciatori senza particolari virtù.

 

Per corroborare questa tesi, Bifulco e Pirone pubblicano i dati Enpals relativi alla stagione 2012. Ebbene, la metà degli oltre 4 mila calciatori tesserati Figc ha percepito una retribuzione annua inferiore ai 23,5 mila euro, cioè meno di un insegnante di scuola media superiore. Scendendo nel dettaglio, mentre il 10 per cento più fortunato ha incassato più di 410 mila euro l’anno, il 10 per cento più povero non ha superato il tetto dei 6 mila euro. Gli stipendi della serie A 2012-2013 rendono altrettanto bene l’idea: l’80 per cento dei giocatori ha percepito un reddito inferiore al milione di euro, il 2,3 per cento superiore ai 3 milioni. Su 529 giocatori, in 3 (Gigi Buffon della Juventus, Wesley Sneijder dell’Inter e Daniele De Rossi della Roma) sono andati oltre i 5 milioni.

 

Nello stesso capitolo di “A tutto campo” si pone un interrogativo non banale: come si riconosce il top player? Il calciatore è, formalmente, un lavoratore dipendente che mette a disposizione delle capacità incorporate in se stesso (conoscenze “embodied”, nella terminologia tecnica). L’atleta non è pagato, come nel caso di altri professionisti, per le ore di lavoro che dedica al proprio club, o in base ai risultati, ma per tre fattori: età, carriera e notorietà. L’ultimo punto è il più scivoloso: il talento, ricordano i due sociologi, non è un elemento oggettivo, bensì è soggetto a valutazioni. Il “contagio informativo” (come lo ha definito l’economista Moshe Adler), allora, può giocare brutti scherzi: per stabilire il prezzo del cartellino di certi calciatori è più importante il come e il quanto se ne parla, di quello che gli stessi fanno nel rettangolo verde.

 

Si determina così un fattore elastico che lascia grandissimo margine di gioco agli agenti, che tra il 2008 e il 2011 hanno raddoppiato il proprio giro d’affari portandolo a 400 milioni di euro annui. E si fissa una leva che premia (ancora) chi è più dotato di personalità e mediaticità. David Beckham, crack inglese protagonista del calcio europeo a cavallo degli anni Zero con le maglie di Manchester United e Real Madrid, è esemplare. Soprannominato “spice boy” perché marito della Spice Girls Victoria Adams (cantante molto popolare negli anni Novanta), nel 2012 ha fondato la Footwork Productions, società per lo sfruttamento dei diritti commerciali. Quando la sua carriera era agli sgoccioli, ha firmato contratti per 22 milioni di euro con sponsor quali il marchio di abbigliamento Adidas e il browser Yahoo!

 

Vale la pena fare un passo indietro e tornare alla storia del calcio. Quanto oggi è maturo e strutturale, era presente in nuce nel passato. A proposito di sponsor, si pensi a George Best, mito maledetto del Manchester United che già negli anni 60 vendeva la propria immagine a fini commerciali (e il proprio cognome a facili giochi di parole: “Tira fuori il meglio” – the best – come slogan per un dopobarba). Best (classe 1946) è stato un precursore in tutto: carattere brillante quanto indisciplinato, si vestiva in maniera eccentrica ed amava la dolce vita. Nell’epoca delle grandi rockstar, lui era un solista del calcio, e il parallelo era talmente chiaro che fu soprannominato “il quinto Beatles”. Il campione nordirlandese fu antesignano del calciatore dall’individualità spiccata anche nell’accezione negativa, cioè quella del talento problematico che si rovina da solo la carriera.

 

Ala di grandissima fantasia, ha dato il meglio di sé fino a 25 anni. Dopo un paio di stagioni di stanca, nel 1974 ha lasciato i Red Devils, cominciando a peregrinare tra club minori della Gran Bretagna ed evanescenti squadre dell’altrettanto evanescente campionato statunitense. Nel mezzo, la dipendenza dal bicchiere che lo porterà nel 2005 alla morte. Fatta eccezione per l’epilogo drammatico, la parabola di Best riassume quelle di tutti i bad boys che hanno sacrificato una possibile carriera gloriosa alle proprie intemperanze. Come Adriano, ex bomber di Parma e Inter, affondato dai vizi e dalla depressione. Secondo la stampa brasiliana, l’Imperatore è tornato a vivere nelle favelas dopo aver dilapidato le proprie immense capacità.

 

Allo stesso modo, anche nel calcio moderno c’è spazio, come in passato, per la sobrietà. Si pensi alla discrezione di Gianfranco Zola e di Vincenzo Montella, mai fuori le righe, o al recente caso di Simone Scuffet, portiere diciottenne dell’Udinese che ha rifiutato un ingaggio milionario in Spagna per terminare gli studi a casa.

 

Sia chiaro: qui non si sostiene che il calcio d’un tempo fosse impermeabile alle mode. Se si sfogliano le raccolte di figurine, si nota come certe tendenze avessero riverberi anche tra i giocatori. A seconda delle stagioni, si trovano capelli lunghi, basette, baffi, caschetti afro, ciuffi ingelatinati. Proprio la capigliatura rappresentava il maggiore spazio di libertà che gli atleti si potevano concedere, a parte qualche vezzo come i calzettoni abbassati di Omar Sivori o la maglia fuori dai pantaloncini di Michel Platini. Né si vuole dire che nel calcio “pre-moderno” mancassero i caratteri forti o stravaganti: nella Roma che ha vinto lo scudetto nel 1983 convivevano Roberto Pruzzo, uomo dall’aspetto dell’impiegato dell’Alfa Sud, e Falcao, bon vivant e farfallone.

 

Quello che è cambiato è, innanzitutto, la frequenza dei personalismi: se nel 1980 ci stupivano i balletti di Juary, dalla maglietta sollevata di Fabrizio Ravanelli (ancora la Juve del ’95) in poi non abbiamo più visto un attaccante esultare alzando semplicemente le braccia al cielo. E poi il portato umano. Fino a un certo punto degli anni Novanta avere successo nel calcio era un viatico per risalire, anche di poco, la scala sociale. La Vecchia Signora era un club ambito non solo per il prestigio sportivo, ma anche perché l’avvocato Agnelli ricompensava i più meritevoli con un impiego in una delle aziende di famiglia. L’obiettivo finale era entrare nei canoni della borghesia. Finanche Maradona, il più riottoso tra i riottosi, compariva in pubblico con la giacca. Nella controversa foto scattata con alcuni esponenti del clan camorristico dei Giuliano, veste un semplice maglioncino. Nel Mondiale appena concluso Neymar, numero 10 brasiliano, ha preteso il parrucchiere personale in ritiro.

 

Col senno di poi, l’irruzione dell’edonismo nel calcio pare evidente a chi ha vissuto, anche se per poco, l’ambiente. Antonio Bruno era un numero 8 alla vecchia maniera: il cervello davanti alla difesa. Ha toccato il punto più alto della carriera nel ’89-‘90, quando ha giocato nella Berretti del Napoli. “Avevo 17 anni e arrivavo nella grande città dopo essere cresciuto a Satriano di Lucania, paese di 4 mila anime – ricorda oggi – Mi pagavano vitto, alloggio e centomila lire al mese. Tutti i giovedì mi allenavo con Maradona. Tanto mi bastava per pensare di essere arrivato. Se non fosse stato per i miei genitori, non mi sarei neanche diplomato”. L’idea di calciatore con la quale Bruno era cresciuto era quella dell’uomo di campo, con una forte etica del campo. “Diego era un folle, ma anche un bonaccione. Gli ho visto prendere, e dare, tante botte senza mai fare una polemica superflua con gli avversari”, dice. Dopo l’esperienza napoletana, Bruno girovaga quattro anni tra C1 e C2, prima che un infortunio lo costringa ad abbandonare l’agonismo a 22 anni. “Il calcio era un fatto serio, anche troppo. Sorrido quando leggo di mister che non riescono a gestire i campioni. Ai miei tempi gli allenatori ti menavano, letteralmente, se osavi rispondere male o non seguire un’indicazione”. Racconta Bruno che nel Napoli spiccavano Massimo Crippa, belloccio lumbard in stile “Milano da bere”, e Ciro Ferrara, che aveva grande attenzione per il proprio corpo. “Nel calcio minore si era abituati ai grandi attaccanti con la pancetta, per dire – sostiene Bruno –. Nei primi anni Novanta, invece, si cominciano a vedere cose insolite anche negli spogliatoi di terza serie. Come ragazzi che si depilano le gambe, o che fanno sessioni extra in palestra per scolpire i muscoli. Li prendevamo in giro, li consideravamo effeminati”.

 

Chi è rimasto nell’ambiente calcistico preferisce smorzare i toni, e non cercare in questo percorso di mutazione uno scadimento valoriale del tipo “o tempora o mores”. Ricorda, poi, che certi atteggiamenti sono figli delle epoche, e non delle persone. E pare proprio avere ragione quando si vedono il roccioso Pietro Fanna sfoggiare oggi la pelata alla Bruce Willis che non osava trent’anni fa, o Riccardo Ferri avere un look più giovanile a 51 che a 26 anni. E’ la posizione di Dino Zoff, campione del Mondo nel 1982 e osservatore, da giocatore, tecnico e dirigente, di quattro decenni di football italiano. “Il calcio è una vetrina e chi lo pratica vive di protagonismo – riconosce – Ma non è un settore slegato dalla società. Se cambiano i comportamenti dei giovani, cambiano anche quelli dei giocatori”.

 

Zoff vestiva solo divise scure e appariva riservato anche nel contesto della paludata serie A dei Sessanta-Settanta. “Ai miei tempi certe forme di egocentrismo non erano possibili – spiega –. La nostra presa sul pubblico si limitava ai 90 minuti di gara. Oggi i media seguono i calciatori ogni giorno e in ogni contesto: è questo che fa la differenza”. Che cosa si sarebbe detto se un portiere di spessore internazionale fosse sceso in campo con le forcine nei capelli? “Non era possibile perché erano tempi diversi con atteggiamenti diversi. Ma anche ora certe cose influiscono poco sul giudizio di un giocatore: quello che conta è la prestazione in campo”.

 

Tra tante trasformazioni, sostiene Zoff, c’è un elemento che rimane immutato: lo spirito del gioco. “Per quanto il fattore della spettacolarità sia aumentato, ciò che è cambiato meno è la sostanza del calcio. Per questo più che i personaggi, mi dà fastidio chi fa sceneggiate dopo i contrasti, o chi cerca vantaggi da piccole furberie”.

 

Fate pure i fighi, insomma, ma rispettate l’ethos del calcio.

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