American fiasco a Gaza

Redazione

Se Kerry e Obama danno a entrambe le parti un motivo per continuare a combattere

La domanda che in questi giorni emerge regolarmente parlando della politica estera statunitense è questa: a cosa diavolo stavano pensando gli americani? L’ultima perplessità in ordine di tempo è il fiasco del weekend, nel quale sia il presidente Obama sia John Kerry hanno fatto pressioni per un cessate il fuoco che molto probabilmente non farà altro che allargare la guerra fra Hamas e Israele. Mentre l’operazione di Gaza via terra da parte di Israele entra nella sua terza settimana, l’obiettivo del principale alleato dell’America in quella regione appare chiaro. Bisogna degradare il più possibile Hamas come forza politica e militare. Ciò significa distruggere i razzi che il gruppo terroristico ancora non ha lanciato contro Israele, nonché annientare la rete di tunnel usata per contrabbandare armi e infiltrarsi illegalmente in Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu deve essere ben consapevole delle vittime civili palestinesi, e deve riuscire a mantenere il sostegno locale e internazionale, ma una vittoria richiede che vengano raggiunti tali obiettivi strategici.

 

L’ironia è che i più prossimi vicini arabi di Israele, nel privato, vorrebbero che ciò accadesse. La Giordania non vuole che alcuna parte dello stato palestinese sia gestita da Hamas, e lo stesso vale per i governi militari sauditi o egiziani. Anche la fazione palestinese di Fatah, che governa la Cisgiordania, vorrebbe che Hamas emergesse più debole da questo scontro. E la Casa Bianca ne è sicuramente consapevole.

 

Eppure, nel weekend il segretario di stato Kerry si è mosso a tentoni in questo conflitto, promuovendo un cessate il fuoco ventilato dalla Turchia e dal Qatar e che era vicino alle clausole richieste da Hamas. Gli Usa non hanno rilasciato i dettagli, ma la stampa israeliana ha pubblicato ciò che conteneva in un sommario lungo circa una pagina. Il documento chiedeva a Israele di negoziare “con le fazioni palestinesi”, intendendo un colloquio diretto con Hamas, così come di mettere fine alla campagna militare israeliana, e allo stesso tempo dava a Hamas concessioni sull’attraversamento dei confini e i pagamenti dall’esterno. In breve, avrebbe messo fine alla guerra lasciando Hamas in una posizione che le avrebbe permesso di ricostruire la sua economia basata sul terrore.

 

Obama non ha approvato il piano di Kerry in sé. Ma in una trascrizione di un suo colloquio telefonico con Netanyahu, la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione: “Basandosi sugli sforzi del segretario Kerry, il presidente Obama ha reso chiaro l’imperativo strategico di istituire un immediato e incondizionato cessate il fuoco che ponga ora fine alle ostilità” e che porti a un accordo basato sul cessate il fuoco del novembre 2012. Quello che aveva consentito a Hamas di riarmarsi.

 

La reazione di Israele è stata di una contrarietà sfociata quasi nel disprezzo. Ari Shavit, un editorialista di centrosinistra che scrive per Haaretz, ha scritto che la decisione di Kerry “di andare mano nella mano con il Qatar e la Turchia e di formulare una cornice incredibilmente simile a quella fornita da Hamas, è stata catastrofica. Ha soffiato vento nelle vele del leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, ha permesso agli estremisti di Hamas di prevalere sui moderati di Hamas, e ha dato nuova vita all’indebolita alleanza regionale dei Fratelli musulmani”. Ha aggiunto che “l’Amministrazione Obama ha dimostrato ancora una volta di essere la migliore amica dei suoi nemici, e il peggior nemico dei suoi amici”. E dovreste ascoltare ciò che dicono i falchi in Israele. Ci dicono che Kerry sia rimasto scioccato da simili critiche pubbliche provenienti da un alleato, ma Israele è una società libera e gli Stati Uniti non riusciranno a imporle un ordine di silenzio.

 

L’esito del piano Kerry-Obama è che Hamas sente di avere ancor meno ragioni per dare il suo assenso a un cessate il fuoco, perché presto o tardi gli americani costringeranno Israele a ritirarsi. E Israele ha tutte le regioni per continuare la sua offensiva in modo ancora più aggressivo, perché sa di non potersi fidare dell’Amministrazione Obama. La diplomazia statunitense è riuscita a raggiungere lo scopo opposto rispetto a quello che si suppone avesse inizialmente.

 

Diciamo “si suppone” perché è difficile capire cosa questa Amministrazione stia cercando di ottenere oltre alla sua perenne richiesta di porre fine alla violenza. Dall’Iran alla Siria all’Iraq e ora a Gaza, questa Amministrazione sembra credere che il mero enunciare le sue buone intenzioni porti a buoni risultati. Nessuna sorpresa dunque che invece ottenga più guerra.

 

La vera leva diplomatica si ottiene invece attraverso fiducia e credibilità. La fiducia viene dall’essere un partner affidabile, specialmente nei confronti dei propri alleati più vicini. Questa Amministrazione ha passato cinque anni a esprimere la sua sfiducia in Israele, pubblicamente e privatamente, e Israele l’ha ripagata in modo non sorprendente.

 

La credibilità viene dal mantenere promesse e minacce, come quelle “linee rosse” in Siria o le affermazioni che questo o quel leader “devono andarsene”. Questa Amministrazione ha passato cinque anni a disegnare linee nella sabbia del medio oriente, che sono spazzate poi via dal successivo ciclo di notizie.

 

Se il presidente e Kerry vogliono davvero riavvolgere la spirale della guerra, ecco un suggerimento: dimenticate le chiacchiere sul cessate il fuoco, dimenticate che entrambe le parti abbiano lo stesso dovere di interrompere le ostilità. Rilasciate una dichiarazione che sostenga il diritto di Israele di difendere se stesso, e fate capire che il modo di fermare le incursioni di Israele per Hamas è quello di smettere le azioni terroristiche contro i civili a Gaza e in Israele. Questo potrebbe essere anche l’inizio – ma solo l’inizio – del processo per ristabilire l’influenza statunitense in medio oriente.

 

(Editoriale pubblicato sul Wall Street Journal - Copyright Wall Street Journal - per gentile concessione di MF/Milano Finanza - traduzione di Sarah Marion Tuggey)

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