Un’immagine del giacimento siriano di al-Tanak, conquistato dallo Stato islamico ad aprile

Il califfato è un petrostato islamico che vende greggio a chiunque lo voglia, a prezzi stracciati

Redazione

Il business del petrolio di al Baghdadi si allarga, ci sono clienti (insospettabili) in molte parti del medio oriente. Ma il califfo deve anche fare i conti con i costi dei pozzi.

La petroliera United Kalavryta è bloccata al largo del porto di Galveston, Texas, da domenica scorsa. Trasporta un milione di barili di petrolio, che sul mercato internazionale valgono circa 100 milioni di dollari, ed è braccata dalle autorità americane. Lunedì il giudice Nancy Johnson di Houston ha ordinato agli U. S. Marshal, corpo di polizia giudiziaria, di sequestrare la nave. I Marshal non sono riusciti ad arrivare alla petroliera prima che si spostasse in acque fuori dalla giurisdizione dello stato del Texas, ieri la giudice Johnson ha detto che ormai la petroliera è fuori dalla competenza del tribunale. Il petrolio della Kalavryta viene da Kirkuk, nel nord dell’Iraq, e non è stato estratto dallo stato iracheno, ma dal governo regionale del Kurdistan.

 

I conflitti in Siria e Iraq, con le entità statali che si sfaldano e poteri alternativi e feroci che sorgono, stanno creando nuove potenze nel business del petrolio. C’è il Kurdistan, che da mesi vende petrolio, benché l’autorità centrale di Baghdad lo accusi di contrabbando, ad alcuni paesi come la Turchia e a oscuri soggetti privati (si pensa che il greggio della Kalavryta fosse destinato ad alcuni compratori sconosciuti in America; secondo Cnbc invece il carico è destinato a un compratore delle Isole vergini britanniche). Soprattutto c’è lo Stato islamico dell’autoproclamato califfo Ibrahim, Abu Bakr al Baghdadi, che ha già il dominio sulle zone più ricche di petrolio del territorio siriano, e ha conquistato alcuni piccoli giacimenti nel nord dell’Iraq, che secondo la rivista specializzata Iraq Oil Report già fruttano un milione di dollari al giorno. Baghdadi sta avanzando, lentamente ma con poca resistenza da parte delle forze irachene, sulla capitale Baghdad, e da lì potrebbe aprirsi le porte alle regioni ricche di petrolio del centro e del sud del paese.

 

Lo Stato islamico è diventato l’ultimo arrivato tra i “petrostate”, ha scritto questa settimana Foreign Policy. Gli esperti di politiche energetiche stimano che l’organizzazione terroristica produca 80 mila barili di greggio al giorno, che a prezzi di mercato valgono circa 8 milioni di dollari. In Siria lo Stato islamico si rivolge a intermediari e contrabbandieri, che portano il petrolio a raffinerie in Kurdistan, Iran, Turchia. Alcune di queste sono le stesse che trattano il petrolio estratto dai curdi: tutto il petrolio che dalla Siria viene portato a nord deve passare per il Kurdistan, e una volta che il greggio è entrato negli oleodotti è difficile definirne la provenienza, c’è perfino la possibilità che parte del milione di barili di greggio della Kalavryta sia stato estratto dai pozzi dello Stato islamico. In Iraq, invece, l’organizzazione terroristica ha la sua flotta di autocisterne, e vende il petrolio direttamente sul mercato nero.

 

La battaglia epica di al Baghdadi per la restaurazione di un Califfato islamico in Siria e Iraq perde la sua carica ideologica quando c’è da fare affari. In Siria lo Stato islamico vende il petrolio ai mediatori, ma sa bene che andrà in buona parte a quello che dovrebbe essere il suo principale nemico, il presidente siriano Bashar el Assad. Questa è una delle ragioni per cui i ribelli siriani, che ormai sono stretti tra le truppe di Assad e le milizie di Baghdadi, denunciano da tempo la connivenza tra il gruppo terroristico e il dittatore, che ha sempre risparmiato le zone controllate dallo Stato islamico dai bombardamenti più feroci.

 

Tra intermediari e autocisterne, lo Stato islamico è costretto a vendere i suoi 80 mila barili di petrolio a prezzi molto più bassi della media di mercato. Dal petrolio siriano, dicono gli analisti, lo Stato islamico guadagna una ventina di dollari al barile, da quello iracheno, venduto direttamente, una sessantina. Sui mercati di Londra e New York il greggio si vende a circa cento dollari al barile, ma nonostante i prezzi da saldo lo Stato islamico riesce a ottenere dal suo petrolio una fortuna, stimata intorno ai due o tre milioni di dollari al giorno. Questo, insieme ai ricavi derivati dai saccheggi e dai riscatti dei rapimenti, rende quella di Baghdadi l’organizzazione terroristica più ricca del mondo. Meglio ancora, ha detto a Fp Michael Knights, esperto di medio oriente al Washington Institute for Near East Policy, lo Stato islamico “sta passando dall’essere l’organizzazione terroristica più ricca del mondo a essere lo stato più povero del mondo”. Grazie a una strategia intelligente che ha portato il gruppo di Baghdadi a basare le sue conquiste sulla presenza di risorse petrolifere (e di infrastrutture, di falde acquifere, di risorse minerarie), lo Stato islamico è più vicino alla creazione di un’autorità statale di quanto al Qaida non lo sia mai stata in decenni di esistenza. Ma il petrolio venduto a prezzi stracciati sul mercato nero, i saccheggi e i rapimenti non bastano per sostenere i costi di uno stato. Dove prima raccoglieva risorse con il racket e le estorsioni oggi lo Stato islamico deve pagare gli stipendi. In un reportage della settimana scorsa sul New York Times un “impiegato” anonimo che è stato in grado di entrare a Raqqa, in Siria, per vedere come vanno le cose sotto il dominio del califfo, racconta che in città ci sono energia elettrica e acqua potabile solo per poche ore al giorno, ma che la benzina, sponsorizzata dai pozzi del Califfato, è abbondante. Anche l’abbondanza di petrolio non durerà per sempre, la manutenzione dei giacimenti sul lungo periodo richiede tecnologie e conoscenze che lo Stato islamico, dicono gli esperti, ancora non possiede. I pozzi sono stati curati fino a pochi mesi fa, ma hanno bisogno di interventi continui che mantengano la pressione a livello adeguato e il flusso costante. Senza nuovi interventi il rendimento dei pozzi è destinato a calare, e le rendite del gruppo terroristico a scendere. Per questo al Baghdadi ha lanciato un appello a tutto il mondo islamico per aiutare la causa del Califfato: abbiamo bisogno di ingegneri, medici e insegnanti, ha detto, per costruire il nostro stato.

 

La trasformazione dello Stato islamico in un petrostato preoccupa l’occidente. Grazie al petrolio lo Stato islamico ha accesso a ricchezze che nessun’altra organizzazione terroristica può nemmeno sognare; soprattutto, il fatto che si stia impegnando nell’estrazione di petrolio e, in Iraq, nella vendita diretta è indice del fatto che è pronto a mettere radici nei territori conquistati. Lunedì il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha condannato la vendita di petrolio in Iraq e Siria da parte di “organizzazioni terroristiche” e ha annunciato che gli stati che dovessero comprare petrolio contrabbandato potrebbero essere soggetti a sanzioni. La dichiarazione del Consiglio cita lo Stato islamico e l’organizzazione siriana Jabhat al Nusra, che dello Stato islamico è rivale. Alcune fonti interne alle Nazioni Unite, però, hanno rivelato al Washington Post che il nome dello Stato islamico è stato inserito solo in un secondo momento, dopo lunghe contrattazioni. A proporre il testo iniziale della dichiarazione Onu è stato Vitaly Churkin, l’ambasciatore alle Nazioni Unite per la Russia, il più grande alleato del presidente Bashar el Assad.

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