Zhang Ziyi, protagonista del film “Memorie di una geisha”, diretto nel 2005 da Rob Marshall

Non più geishe

Giulia Pompili

Il Giappone, imprigionato in un “decennio perduto”, sembra inizi a interrogarsi sulla necessità di violare lo spirito conservatore. In quello che è un paese per uomini, con la Womenomics il premier Abe chiede aiuto alle donne. Germogli di femminismo

Il Giappone di una volta non esiste più, dicono. Del Giappone imperiale vengono tramandati solo alcuni aspetti tradizionali, che il più delle volte finiscono con l’imprigionare il paese in rigidi stereotipi. Ma se non fosse per le donne, il Sol Levante sarebbe ancora fermo all’èra Tokugawa, mi dice un amico di Osaka. Altro che geishe. Oggi gli uomini giapponesi sono diventati introversi, impauriti, schiavi di un’immagine stereotipata della mascolinità. Su di loro è caduta l’ombra della “morte lenta” della deflazione, una piaga che affligge il Giappone da molto tempo, proprio su quegli uomini che secondo le convenzioni sociali sono i responsabili unici del benessere economico della famiglia. La virilità secondo i samurai, piuttosto, era conoscenza, studio, disinibizione, ma quell’allegria, quella curiosità, pare che gran parte dei giapponesi l’abbiano persa. In molti proverbi nipponici, che si chiamano proverbi ma altro non sono che aforismi di una saggezza antica, si ritrova la parola egao, sorriso. E’ un sorriso che oggi non si trova se non sui volti delle donne giapponesi. Un paese con un problema demografico grave, imprigionato in un “decennio perduto” di stagnazione economica, sembra che inizi finalmente a interrogarsi sulla necessità di rompere alcuni degli schemi tradizionali e violare quello spirito conservatore che è poi, allo stesso tempo, la vera forza di Tokyo.

 

Nel dicembre del 2012, non appena eletto, il premier Shinzo Abe ha fatto un discorso molto chiaro: tutto quello che sembrava impossibile fino a ora in Giappone lo faremo diventare possibile. La sua Abenomics – le tre frecce di riforme ispirate al pensiero economico keynesiano – ha suscitato l’interesse di tutto il mondo finanziario. Ma non basta. Perché secondo l’ultimo report del ministero della Salute di Tokyo il numero di bambini nati nel 2013 è 1.029.800, settemilaquattrocentotrentuno bambini nati in meno rispetto all’anno precedente. Un trend che va avanti da molto, troppo tempo. Il Giappone è attualmente il paese più vecchio del pianeta. Il declino demografico è un’emergenza, ed è talmente grave che secondo le statistiche entro i prossimi cinquant’anni il quaranta per cento della popolazione sarà over 65, e la popolazione complessiva passerà dagli attuali 127 milioni a 87 milioni (-30 per cento). Secondo i dati del governo ogni 109 posti di lavoro disponibili ci sono solo cento persone in cerca di un’occupazione. Abe ha dovuto mettere mano alle rigide politiche sull’immigrazione, perché in alcuni settori gli immigrati possano aiutare il Giappone a produrre di più. Difficile da mandare giù per un paese dove gli stranieri vengono ancora apostrofati con la parola gaijin e spesso sono vagamente ed elegantemente discriminati, per esempio nell’affitto di un appartamento, oppure nell’accesso ad alcuni luoghi, virtuali e non. Ma il premier Abe ha dovuto iniziare anche un’altra sfida, questa volta ancora più scivolosa, rischiosa, ma quanto mai necessaria: portare le donne a lavoro.

 

Si chiama Womenomics la politica di Shinzo Abe per agevolare l’accesso al mercato del lavoro delle donne giapponesi, ma guai a chiamarla riforma. Nei corridoi del Kantei, il palazzo del governo di Tokyo, ci tengono a specificare che si tratta di “provvedimenti” che fanno parte della “nuova politica economica”. Non c’è niente della rivoluzione culturale programmata a tavolino, insomma, eppure qualcosa si muove davvero. Quando capita di parlare con un occidentale di Womenomics, la prima domanda a cui si viene sottoposti è: ma perché, davvero in Giappone le donne non lavorano? La risposta è no. Solo il 63 per cento delle donne, secondo gli ultimi dati, partecipa al mondo del lavoro. E molte di loro non vedono l’ora di sposarsi per lasciarlo. Un articolo dell’Economist del 29 marzo scorso raccontava la storia di Karen Kawabata, ragazza modello, altissimo profilo scolastico – il Giappone ha un livello d’istruzione tra i più alti dei paesi dell’Ocse – padre americano e madre giapponese, ma teme per la sua carriera nella società McKinsey, dove dovrebbe andare neolaureata, perché scegliere di lavorare vorrebbe dire rinunciare a una famiglia. Il problema sono gli orari folli a cui i dipendenti giapponesi vengono sottoposti – i sarariman, impiegati dagli occhi a mandorla su cui sono stati scritti centinaia di trattati sociologici per capire cosa porti questo esercito di lavoratori devoti all’alienazione, spesso all’alcolismo, all’hikikomori, la totale assenza di rapporti con l’esterno. Inoltre la mancanza di strutture di assistenza per le madri rende l’accesso delle donne al mondo del lavoro ancora più difficile. Gli asili nido in Giappone hanno liste d’attesa interminabili, e tra gli obiettivi dell’Abenomics c’è l’aumento di quattrocentomila posti entro tre anni.

 

Sembra paradossale, ma nel 2005, durante il primo e breve governo Abe, la strategia per combattere la depressione demografica del Partito liberal democratico era l’esatto opposto: incentivare le disuguaglianze tra uomini e donne lavoratrici (oggi gli uomini guadagnano in media il 30 per cento in più delle donne), scoraggiare la carriera femminile e sperare che le donne restino a casa a far molti figli. E la tradizione conferma questa tendenza. Per esempio il tekireiki, letteralmente “l’età da marito”, era l’incubo di tutte le giovani donne giapponesi così come la hina matsuri, la festa delle bambole, che si celebra il 3 marzo di ogni anno e durante la quale i genitori chiedono per le femmine di casa di crescere sane e belle, pronte per essere maritate. E ci sarà un motivo se la festa delle bambine in Giappone è un giorno feriale, l’omologa festa dedicata ai bambini, il kodomo no hi che si celebra il 5 di maggio, è un giorno festivo.

 

Il nuovo governo di Shinzo Abe è iniziato in controtendenza, come annunciato da lui stesso in un intervento del 25 settembre 2013 sul Wall Street Journal. E il motivo è molto semplice: secondo un report del 1999 di Goldman Sachs, agevolare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro porterebbe almeno otto milioni di persone in più a contribuire alla forza lavoro giapponese, che tradotto in soldoni significa il 15 per cento in più di pil. E’ per questo che David Pilling, corrispondente da Tokyo del Financial Times, in un articolo di febbraio scriveva che la Womenomics di Abe non ha bisogno di una “evoluzione, ma di una rivoluzione”.

 

Certo che la Womenomics non è partita nel migliore dei modi. Anzitutto lo slogan. Per promuovere le nuove politiche al femminile lo staff di Shinzo Abe ha messo online un blog “Kagayaku”, che significa brillare in giapponese. Un messaggio potente: facciamo risplendere le nostre donne. Solo che nella sua versione in inglese – ah, un altro cavallo di battaglia di Shinzo Abe è proprio la promozione dello studio della lingua universale – il blog viene tradotto con la parola “Shine”, che se letto in giapponese, sciné, cambia radicalmente di significato e diventa… muori! Una gaffe non da poco, ripresa dai giornali di mezzo mondo con titoli del tipo “Il premier giapponese invita le donne a morire”. Poi c’è stato il brutto episodio durante un’assemblea del municipio di Tokyo. A parlare dallo scranno dell’Aula era Ayaka Shiomura, graziosa trentacinquenne neoeletta nelle fila del Your party, un partito di centrodestra fondato nel 2009 da Yoshimi Watanabe dopo la una scissione dal Partito liberal democratico di Abe. Ayaka stava facendo un discorso su quegli stessi temi di cui il premier giapponese ha parlato alla Dieta e nei vertici internazionali, chiedendo al municipio di Tokyo di aumentare i servizi per le donne e le madri che vogliono lavorare. E mentre pronunciava quelle parole, dalla parte dell’Aula dove siedono i membri del Partito liberal democratico si è alzata una voce a interromperla: “Dovresti sbrigarti a sposarti!”. Ayaka, come avrebbe fatto qualunque altra donna giapponese, non si è spazientita. Non ha risposto, e non si è demoralizzata quando nell’Aula hanno iniziato tutti a ridere.

 

Non ha indetto una manifestazione di piazza, come avrebbero fatto le nostre senonoraquandiste (eccolo, un altro motivo per cui le donne giapponesi non potranno mai comprendere un’occidentale, e viceversa. Loro non hanno mai vissuto il femminismo). Quando nell’Aula hanno iniziato tutti a ridere, Ayaka ha alzato gli occhi dal foglio, ha accennato un sorriso e ha continuato il discorso. Ma poi qualcuno dall’assemblea ha gridato più forte: “Cos’è, non puoi avere figli?”. Altre risa dall’Aula. A quel punto Ayaka, con la voce spezzata e gli occhi gonfi di lacrime, ha concluso il suo intervento, ha ringraziato con un profondo inchino i suoi ascoltatori, è tornata a casa e ha scritto un messaggio su Facebook: “E’ stato come un pugno nello stomaco”. Inutile dire che in poco tempo Ayaka è divenuta il simbolo del coraggio e della forza delle donne giapponesi. Il suo sorriso è arrivato sui giornali di tutto il mondo. L’ambasciatrice americana a Tokyo, Caroline Kennedy, le ha inviato una lettera di solidarietà, per incoraggiarla nel suo lavoro. Quattro giorni dopo, spinto dalle pressioni dei media, Akihiro Suzuki, cinquantunenne del Partito liberal democratico, ha ammesso di essere stato lui ad aver insultato la giovane collega. In una cerimonia pubblica, come d’usanza in Giappone, il politico ha espresso scuse formali a Ayaka, che ha commentato: “E’ un bel passo avanti, anche se un po’ troppo in ritardo”. Un caso pubblico che ha avuto una soluzione pubblica, ma le settantamila firme che chiedevano, con una petizione online, di identificare l’autore dei commenti maschilisti per il Giappone è una piccola rivoluzione. Anche se, come spiega l’avvocato per i diritti civili Hideo Yamada, “chi pronuncia certi commenti sessisti sul posto di lavoro, per esempio, al massimo riceve un richiamo”. Un caso simile ad aprile ha visto protagonista la deputata trentunenne Sayuri Uenishi, del Partito della restaurazione. Durante un suo discorso sulla bassa natalità e sull’altissima densità abitativa delle metropoli giapponesi, un collega le ha urlato: “Per favore, sbrigati a sposarti!”. L’assemblea è scoppiata a ridere, ma Sayuri, con la dignità di una donna navigata, ha risposto semplicemente: “Ganbarimasu”, che è un’espressione giapponese intraducibile ma significa più o meno: farò del mio meglio, grazie.

 

“Il Giappone è un paese per uomini. La Womenomics è stata creata dagli uomini perché un paese così maschilista, in una società che tende alla globalizzazione, non sarebbe mai stato accettato”. A spiegarlo al Foglio è Yuko Hayashi, che oggi è manager di Toyota e vive in Italia da qualche anno, ma “in Giappone non avrei mai avuto la possibilità di fare carriera”. Eppure la Womenomics di Abe prevede che le grandi aziende che fanno parte della Keidanren, la potentissima Confindustria giapponese, entro il 2020 abbiano il 30 per cento di donne nel board. “Honne to tatemae”, dice Yuko, un’espressione che noi potremmo tradurre con l’aggettivo ipocrita, ma in realtà definisce la totale dicotomia tra l’essere interiore dei giapponesi, ovvero il proprio reale pensiero, e il mondo esterno, l’apparire. “La faccia è la verità. Anche se penso che lentamente le cose stiano cambiando”. Ma allora perché lei è andata via dal Giappone ed è venuta in Italia? “Perché il Giappone mi stava stretto. Troppe regole, troppa poca flessibilità”, spiega Yuko. E di certo la politica non è un buon esempio: su 722 membri della Dieta solo 78 sono femmine. Eppure ci sono delle donne nel Giappone moderno che stanno cambiando le cose più dei provvedimenti di Abe.

 

Una è Yuriko Koike, ex ministro della Difesa del primo governo Abe, la prima donna a ricoprire un ruolo così prestigioso, nonché il nome più commentato e citato nel 2008 quando fu la prima donna ad aspirare alla guida del Sol Levante. La “madame sushi”, come si definiva lei ai tempi della Difesa quando la sua omologa americana era il segretario di stato Condoleezza Rice, da sempre milita nel Partito liberal democratico, ha studiato a lungo Economia e l’arabo, e non ha mai giocato la carta del femminismo per vincere. L’altra è il ministro per le Pari opportunità e la lotta alla denatalità del gabinetto di Shinzo Abe, Masako Mori, avvocato cinquantenne con due figli, che ultimamente è stata incaricata di far approvare anche la controversa legge sul segreto di stato promossa dal Partito liberal democratico. In un’intervista al Wall Street Journal di qualche giorno fa, la ministra Mori ha spiegato che il Giappone ha sbagliato in passato a pensare che far stare a casa le donne avrebbe fatto aumentare la natalità, anzi. Il problema sono i matrimoni, e gli uomini e le donne che hanno sempre meno voglia di stare insieme. Per questo – ha annunciato – il suo gabinetto sta promuovendo una serie di iniziative come “La giornata dell’amore”, da festeggiare il primo giorno di ogni mese, per incentivare uomini e donne a incontrarsi, “perché l’Abenomics ha bisogno soprattutto di una Babynomics”, ha detto Mori.

 

L’ultimo esempio per spiegare la rivoluzione silenziosa delle donne giapponesi non può che venire da Akie Abe, la first lady del Kantei. Suo marito è Shinzo, l’uomo più chiacchierato del Giappone nel mondo, definito da varie parti come il “nuovo fascista”, la cui “deriva autoritaria” farà finire il Pacifico nel bel mezzo della Terza guerra mondiale. E’ “l’uomo austero” che tra una photo opportunity con Barack Obama e una visita a Papa Francesco “va a pregare i criminali di guerra al santuario Yasukuni di Tokyo”. Quell’uomo lì, si ritrova una moglie che sorride sempre e sembra la personificazione del proverbio “genki kubari egao kubari”, regala la tua energia e sii generoso anche con i tuoi sorrisi. Akie partecipa ai Gay Pride, nonostante al governo di Tokyo non si sia mai neanche lontanamente parlato di leggi per le unioni omosessuali. Akie si batte perché il Giappone abbandoni definitivamente l’idea di riaccendere le centrali nucleari, un’ipotesi che suo marito Shinzo ha invece più volte messo in campo, visto che la spesa energetica giapponese, da quell’11 marzo del 2011, è divenuta insostenibile. Akie va in Corea del sud e promuove le buone relazioni tra vicini, nel momento di peggior crisi diplomatica della storia tra Seul e Tokyo.
Akie è una first lady, ma è soprattutto una moglie, con la sua indipendenza, e la sua forza, che posta su Facebook le foto delle loro cene d’estate, dei loro tre bassotti a pelo lungo, della faccia di lui – indimenticabile – mentre scarta il porta biglietti da visita che lei gli ha portato dal weekend con le amiche. Altro che geisha.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.