¡Pura vida!

Redazione

La Spagna è vitale mentre l’Italia pare moribonda. Lo dice anche l’Fmi. Perché? Ragioni politiche, economiche, demografiche e sociali. Girotondo di opinioni

Uno “spread” di coerenza. Le ragioni del successo della terapia adottata dal governo di Mariano Rajoy consistono soprattutto nella chiarezza e nella coerenza della linea politica decisa. Alla sua elezione nel 2012 Rajoy si pose esplicitamente l’obiettivo di favorire un recupero del mercato del lavoro anche con una crescita bassa o nulla, attraverso una riforma radicale che ha ridotto le garanzie e quindi agevolato le aziende ad assumere senza il rischio di dover poi mantenere una mano d’opera non necessaria. Il punto più critico, la possibilità di licenziare senza alcuna indennità nel primo anno di occupazione, contestata violentemente dall’opposizione e dai sindacati, è stata invece confermata recentemente da una sentenza della Corte costituzionale, ed è stata la chiave del recupero strutturale dell’occupazione.
Il governo moderato ha retto a una dozzina di scioperi generali e a numerose agitazioni di “indignados”, grazie a una maggioranza assoluta ottenuta più per la crisi dell’avversario socialista che per una affermazione particolarmente vivace del Partido popular. La medicina è stata molto amara, i salari sono decresciuti di un decimo dal 2012, ma alla fine la spirale della disoccupazione, che ha raggiunto un quarto della forza lavoro, ha cominciato a essere bloccata e poi invertita. La riforma spagnola si adatta come un guanto a un’economia orientata a servizi di alta temporalità, come il turismo, che infatti è stato rilanciato (mentre in Italia langue), in base a una lettura realistica che parte dalla colossale bolla immobiliare, simile a quella americana, con le ricadute sul patrimonio delle banche, e che punta al recupero dell’occupazione che si è persa nell’edilizia collocandola nel terziario, mentre alla manifattura si chiede di sostenere la produzione, che infatti cresce a un ritmo doppio di quello previsto sei mesi fa dallo stesso Fondo monetario internazionale, ma non l’occupazione, che l’evoluzione tecnologica del settore industriale inibisce quando la crescita è al di sotto del 2 per cento. Sul piano sociale, oltre alle misure assistenziali specifiche, Rajoy ha scelto di tenere l’Iva più bassa d’Europa, in modo da non moltiplicare l’effetto della riduzione dei salari riducendone il potere di acquisto per via fiscale. E’ persino inutile paragonare la decisione e la coerenza riformistica di Rajoy (anche in scelte per qualche aspetto discutibili, come quella sull’Iva) e la sua scelta coraggiosa di chiedere l’intervento europeo per il salvataggio bancario, resistendo però alle richieste di applicare le norme sul 3 per cento del deficit, che la Spagna ha invece largamente superato, con l’andamento erratico delle iniziative dei governi italiani. Anche questo deficit politico va calcolato nello spread reale tra le tendenze delle due economie mediterranee.
Sergio Soave – editorialista del Foglio

 

Piensa positivo. L’aria che si respira in questo momento da Siviglia a Barcellona non è certo quella di euforia degli anni Novanta, ma indubbiamente il clima è cambiato. Tra le strade spagnole non c’è più quel diffuso senso di depressione che era presente fino allo scorso anno e anzi la vitalità ha ripreso a spingere il paese. Gli indicatori economici puntano in generale al sereno. Niente a che vedere con l’Italia che continua a soffrire con tassi di crescita dello zero virgola. Certo, la disoccupazione rimane a dei livelli estremamente elevati, un quarto della popolazione non riesce a trovare lavoro, ma il numero di occupati è cresciuto di mezzo milione nel primo semestre. Il turismo rimane una delle principali fonti di crescita e occupazione. E indubbiamente le riforme attuate dal governo Rajoy – quelle chieste dalla Banca centrale europea con due famose lettere inviate nell’estate 2011 sia a Madrid sia a Roma – stanno aiutando il paese a ripartire. Ciò ha permesso maggiore flessibilità del mercato del lavoro, uno choc positivo sull’occupazione e un incremento di produttività e competitività. E anche maggiore flessibilità sul rientro al 3 per cento del deficit concessa dalla Commissione europea. L’ultimo taglio delle tasse non dovrebbe compromettere troppo gli obiettivi finanziari del paese. Oltretutto le continue revisioni al rialzo dell’economia dovrebbero dare le risorse necessarie a non sforare il patto europeo. C’è certamente ancora molto da fare: ad esempio, le liberalizzazioni sono spesso state fatte a metà, vedi quella delle ferrovie. Le resistenze al cambiamento sono forti anche qui, ma indubbiamente il paese è molto meno sclerotizzato dell’Italia.
Andrea Giuricin - economista dell’Istituto Bruno Leoni, da Bacellona

 

La crescita del pil è illusoria, arriva dopo una drastica erosione del tessuto produttivo. Con una struttura manifatturiera ormai debolissima, senza un reticolo di piccole e medie imprese robuste – l’industria basca di beni strumentali è crollata, le piccole e medie imprese catalane soffrono un deficit di competitività rispetto ai concorrenti – il miglioramento non può che arrivare dunque dal settore servizi in un’economia che si è fondata per un ventennio su un’industria immobiliare dilagante foraggiata da quella bancaria (la cui crisi è stata tamponata). La Spagna non ha trasformato l’economia tramite l’innovazione tecnologica o la distruzione creatrice schumpeteriana che ha sperimentato durante il franchismo. Dopo la dittatura dello sviluppo c’è stata la democrazia della non crescita, almeno al netto del sapiente uso dei fondi europei, che va riconosciuto per quanto sia da imputare soprattutto a una tecnostruttura efficiente; retaggio neanche a dirlo del franchismo. Perciò non penso sia un valido modello per la ristrutturazione delle altre economie del sud Europa.
Giulio Sapelli - storico dell’economia, Università statale di Milano

 

Porte aperte agli investitori. La capacità della Spagna è stata quella di creare le condizioni per l’insediamento della grande impresa che purtroppo è uno dei pochi capisaldi del suo settore manifatturiero. Mi riferisco all’industria automobilistica dove la strategia premiante di Madrid – che aveva perso il suo produttore nazionale, Seat – è stata quella di fare una legislazione del lavoro, con flessibilità di impiego e di contratti, che ha creato le condizioni per l’accoglienza delle multinazionali estere delle quattroruote (come Nissan, Renault o Ford). Ciò ha permesso agli investitori lì insediatisi di fare un uso elastico e intensivo degli impianti e quindi di coniugare la capacità di risposta ai picchi del mercato con una certa prontezza operativa. Il modello d’attrazione di investimenti nell’automotive è simile a quello britannico e diverso da quello tedesco, dove le grandi industrie restano a casa. Noi non abbiamo un modello di riferimento, in questo come in molti altri campi dell’economia: abbiamo infatti un solo produttore, Fiat-Chrysler, globalizzato, che ha visto diminuire la sua capacità produttiva sul territorio nazionale e per converso non abbiamo guadagnato la capacità di attrarne altri.
Giuseppe Berta - storico dell’Industria, Università Bocconi di Milano
 


Gente attiva e libera da paranoie, anche sindacali. La Spagna cresce e l’Italia no, come si vede dall’ultima previsione del Fondo monetario internazionale che ci dà solo un più 0,3 per il 2014 mentre alla Spagna assegna un più 1,2. Per una ragione molto semplice. Il  mercato del lavoro spagnolo è flessibile e le persone attive (cioè quelle che hanno un lavoro o lo cercano) sfiorano il 50 per cento della popolazione: 23 milioni su 47 milioni di abitanti. In Italia le persone attive sono il 40,9 per cento: 25 milioni su 61 milioni di abitanti. In Spagna i contratti a termine o temporanei riguardano un terzo degli occupati, mentre in Italia, almeno ufficialmente, sono solo una quota marginale. I due aspetti – elevata percentuale di popolazione attiva ed elevata percentuale di contratti a termine o temporanei – sono collegati e hanno per giunta effetti sociali da non sottovalutare. Questi contratti consentono un lavoro a membri della famiglia che diversamente potrebbero non far parte della popolazione attiva, come le persone della terza età, quelle che studiano, quelle che debbono spendere una parte sostanziale del loro tempo per attendere a bambini piccoli o membri della famiglia non abbastanza autosufficienti. I datori di lavoro, potendo utilizzare i contratti temporanei, assumono persone che diversamente non assumerebbero. Ciò dà flessibilità all’offerta di servizi (turistici, agricoli stagionali più sviluppati che in Italia) con prezzi più competitivi. E l’industria manifatturiera, edilizia e delle opere pubbliche, se ne giova anch’essa.
Aggiungo che la Spagna è entrata nell’Unione europea e poi ha firmato il trattato di Maastricht con un Partito socialista riformista simile a quello di Bettino Craxi, da cui aveva preso ispirazione e pertanto con un ordinamento sindacale riformista molto diverso da quello neocorporativo che invece l’Italia si era dato all’epoca dell’adesione alla moneta unica. Craxi con il taglio della scala mobile, nonostante il veto della Cgil e l’esitazione della Confindustria, aveva stracciato il patto neocorporativo allora vigente. E la vittoria di Craxi nel referendum abrogativo sostenuto dalla Cgil aveva segnato la sepoltura di tale patto, risorto dopo la distruzione del partito craxiano. Da ciò consegue che i contratti aziendali di lavoro flessibile modello Marchionne in Spagna si possono fare, in Italia non ancora. E allora cosa c’è di strano se la Spagna cresce e l’Italia no?
Francesco Forte - economista, già ministro delle Finanze (1982-’83) ed editorialista del Foglio

 

Da muratori a camerieri? Non bisogna essere troppo schizzinosi di fronte alla creazione di occupazione, sia chiaro. Nel trimestre appena trascorso, poi, dopo molti anni è pure lievemente aumentata la dimensione della forza lavoro, con reingressi di persone in precedenza scoraggiate. Tutto ciò premesso, e prima che il frastuono nostrano del “facciamo come la Spagna” ci sovrasti, è utile riflettere su alcuni punti. La ripresa di occupazione giunge a oltre due anni dalla riforma del mercato del lavoro spagnolo, che ha fortemente ridotto protezioni e costo dei licenziamenti. Quindi, inferire un legame di causa ed effetto, pur al netto dei fisiologici ritardi dell’economia, appare piuttosto spericolato. Poi, serve contestualizzare i dati: la Spagna ha appena iniziato a intaccare una disoccupazione da Armageddon. Terzo punto: non bisogna leggere troppo da un singolo dato ma è difficile pensare che un paese possa crescere nel lungo periodo se la sua economia viene spinta solo dal turismo: con tutto il rispetto per il settore e la sua rilevanza, il valore aggiunto si crea altrove e soprattutto in altro modo. La Spagna da paese di muratori a paese di camerieri? Attendiamo i dati di pil del secondo trimestre, sapendo che nel primo buona parte della crescita è stata fatta da consumi pubblici e inoltre che oggi la Spagna, anche grazie alla ripresa, vede la ricomparsa di deficit nel saldo merci del commercio estero per via di andamento non brillantissimo dell’export ma soprattutto di un aumento delle importazioni. Se questa tendenza dovesse affermarsi, il commercio estero finirebbe col sottrarre contributo alla crescita e non aggiungerne, evidenziando la fallacia di un miglioramento del saldo commerciale fatto in misura non trascurabile da compressione delle importazioni, cioè distruzione della domanda.
Mario Seminerio - testo tratto dal blog Phastidio.net

 

Un campione dell’export a tempo determinato? La Spagna è stata il campione europeo delle esportazioni durante il triennio 2010-2013. Ha vinto, si potrebbe dire, la “coppa” per incremento dei valori di beni esportati a prezzi correnti (più 24,4 per cento) davanti a Italia e Germania finite quasi a pari merito (più 15,5 e più 15,2) e alla Francia (10,5). La dinamica positiva, che si è accentuata lo scorso anno, è determinata soprattutto da un miglioramento competitivo derivato dal rallentamento del costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto tra costo del lavoro e produttività) che vede però nell’aumento della disoccupazione, che nello stesso periodo è triplicata, la faccia negativa della medaglia.
La maggiore flessibilità ha probabilmente contribuito anche a fare nascere nuove aziende esportatrici, il che si può dedurre dall’aumento del numero di destinazioni per i prodotti esportati dalla Spagna. Un export dal carattere estensivo, dunque, che evidenzia una dinamica opposta a quella italiana dove invece il numero di destinazioni è rimasto pressoché invariato ma è invece aumentata la quantità di prodotti esportati: indice del fatto che non si sono aggiunte molte nuove imprese esportatrici a quelle già esistenti, le quali hanno però aumentato l’intensità delle vendite insistendo sugli stessi mercati di sbocco abituali. In estrema sintesi, alla base dell’aumento delle esportazioni italiane tra 2010 e 2013, c’è l’aumento di volume delle esportazioni degli stessi prodotti verso le stesse destinazioni mentre per la Spagna l’incremento è dovuto alla capacità di trovare nuovi mercati di sbocco per gli stessi prodotti esportati nel 2010. Tuttavia è lecito avanzare dubbi sulla solidità del progresso spagnolo: se guardiamo l’andamento delle esportazioni per valore dei beni nei primi cinque mesi del 2014 al confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente, la “coppa” è già sfuggita dalle mani di Madrid. Tornata dietro alla Germania (più 2,8) e anche all’Italia (più 1,3), la Spagna (meno 0,6) è finita terza mentre la Francia (meno 1,5) resta sempre ultima. I motivi sottesi restano da verificare nell’ultima parte dell’anno. Un’ipotesi che si può avanzare – con cautela – è però che una ripresa della domanda interna abbia inciso in una qualche misura sul commercio estero. Ovviamente, va ricordato, la Spagna ha un divario competitivo da recuperare molto ampio – anche più ampio di quello dell’Italia – rispetto alla prima economia dell’Eurozona, la Germania. Delle battute d’arresto sono dunque fisiologiche in questo processo.
Sergio De Nardis - capo economista di Nomisma

 

Good job, but not out of the woods. La ripresa della Spagna è più veloce delle aspettative. Penso che le ragioni principali siano due. Primo, i benefici della sua liberalizzazione del mercato del lavoro sono stati sottostimati. La maggior parte degli economisti pensava che le riforme avrebbero avuto bisogno di anni per produrre i loro frutti, ma i benefici sono arrivati quasi immediatamente. Le aspettative dei datori di lavoro e dei lavoratori, e dunque i loro comportamenti, sono cambiati praticamente dal giorno alla notte. La disoccupazione ha iniziato a scendere prima ancora che l’economia iniziasse a crescere: fenomeno, è bene ricordarlo, che i macroeconomisti con i loro vecchi modelli basati su mercati del lavoro rigidi non sono riusciti a prevedere. Si può osservare qualcosa di simile in Inghilterra, dove la disoccupazione è salita pochissimo nonostante la durezza della recessione e ora sta scendendo rapidamente. Ci sono sintomi di questa tendenza anche in Grecia. La lezione dell’importanza delle riforme del mercato del lavoro è sicuramente preziosa per l’Italia. Secondo, esattamente come i mercati finanziari hanno peggiorato la recessione della Spagna provocando una crisi e un circolo vizioso, il ritorno della fiducia ha segnato all’opposto un circolo virtuoso. Di nuovo, si può vedere qualcosa di simile anche in Grecia. Quando la fiducia degli investitori torna, si abbassa il costo del capitale per le imprese nazionali e si creano posti di lavoro tramite investimenti diretti e migliora la fiducia interna. Anche questa influenza della finanza non è stata valutata a sufficienza da molti economisti – sia nei suoi aspetti negativi sia in quelli positivi. Benché la Spagna stia facendo bene, il punto da cui è partita è terrificante – e il paese non è ancora fuori pericolo. Le mie preoccupazioni più grandi sono: primo, che la crescita della Spagna rallenterà se l’Eurozona mantiene la sua crescita anemica (qualcosa che potremmo vedere presto ora che anche la Germania sta avendo problemi) e secondo che la Spagna possa passare attraverso le stesse turbolenze politiche che hanno danneggiato l’Italia. Una delle ragioni principali per cui la Spagna è stata capace di riformare con decisione la sua economia è che ha avuto un governo forte. Ma dopo le prossime elezioni, soprattutto con la questione della Catalogna che incombe ed entrambi i partiti tradizionali che perdono voti, potrebbe essere difficile formare un governo forte.
Hugo Dixon - editorialista dell’agenzia Reuters e fondatore della rubrica ReutersBreakingViews

 

La sangria, giovane e fresca, non avrà il corpo e l’eleganza del Barolo, ma evidentemente sa mettere di buon umore un paese che era finito in ginocchio. La Spagna ha creato le condizioni macroeconomiche per far ripartire il pil principalmente perché il suo Reer (tasso reale di cambio) è migliorato dal 2010 a oggi del 13,4 per cento rispetto a un paniere di 37 partner commerciali (fonte: Economist Intelligence Unit, luglio 2014), mentre quello italiano è ulteriormente peggiorato di circa il 6 per cento, principalmente a causa del costo per unità di lavoro (sceso del 6,9 in Spagna e aumentato del 4,3 per cento in Italia dal 2010 a oggi). Anche grazie a ciò la quota dell’export sul pil spagnolo è passata dal 26,5 del 2008 al 34,1 del 2013, superando per la prima volta l’Italia, che pure è cresciuta dal 28,5 al 30,4 nello stesso periodo. Ma sono probabilmente i fattori microeconomici ad aver riacceso il motore di questa pur fragile ripresa: la Spagna è un paese sociodemograficamente più giovane e “affamato” dell’Italia, con i cicli di vita sia delle imprese familiari sia delle public company che presentano meno ostacoli all’innovazione strategica, e con un sistema bancario già risanato grazie ai contributi europei (e quindi anche italiani), che appare meglio attrezzato in termini organizzativi per affrontare le sfide dell’Unione bancaria.
La propensione degli spagnoli all’uso delle tecnologie è significativamente maggiore rispetto all’Italia, in particolare sull’e-commerce: per due paesi con un forte settore turistico e la necessità di rafforzare le esportazioni, la capacità di agganciarsi alle potenzialità di internet è cruciale. La Spagna è già il maggiore mercato di e-commerce del sud Europa, sopravanzando l’Italia di quasi il 30 per cento per fatturato totale (14,4 contro 11,2 miliardi) pur su un’economia più piccola. Inoltre, il tasso di sviluppo in Spagna è tra i maggiori in Europa (più 22,7 per cento nel 2013), e si avvale anche del potenziale dell’America latina, che è una delle aree a maggior crescita del mondo sull’e-commerce, con il più 24,6 per cento nel 2013 (fonte: European B2C e-commerce Report 2014).
La Spagna non solo ha istituzioni democratiche in grado di fare davvero le riforme, senza le “deroghe” adottate in Italia, ma sta dimostrando al mondo di avere voglia di futuro. L’Italia, invece, ne ha tuttora paura, e preferisce lasciar invecchiare il proprio buon vino in otri inadeguati, invece che travasarlo in botti nuove.
Carlo Alberto Carnevale Maffè - economista, Università Bocconi di Milano (Scuola di direzione aziendale)

 

Pagina a cura di Alberto Brambilla. Testi raccolti in redazione (ha collaborato Luciano Capone).

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