“C’era una sola domanda: e io? Io che non ho più vent’anni ma quarantacinque, e lui che non ha mai lasciato la moglie nemmeno quando ci ha beccati…” (qui sopra, Richard Tuschman, “Hopper Meditation”)

Perché tutto parli di me

Annalena Benini

L’ossessione per l’autobiografia anche sui treni che fermano a Ladispoli, il conforto delle vite che non sono la mia e il bisogno di fare sempre la stessa domanda: e io?

Il treno è pieno e si sta in piedi, schiacciati contro le borse degli altri, non c’è quasi lo spazio per mandare messaggi. Lei è bionda e anziana, porta i tacchi alti, una gonna di pelle e gli occhiali da sole, lui ha qualche anno in più e la tiene delicatamente per il polso, le spiega dove appoggiarsi, lei guarda avanti ma forse non vede niente da dietro quegli occhiali da farfalla. E’ arrabbiata, gli dice piano: “Lasciami stare”. Lui continua a spiegarle qualcosa, è gentile. Lei alza la voce: “L’unico modo è prenderti a calci nel culo, come faceva quella, con te è l’unico modo”. Lui resta lì, silenzioso, con le dita intorno al suo polso, lo sguardo costernato fisso sugli occhiali da sole. Le persone schiacciate addosso a me si sorridono, la ragazza che ho di fronte annuisce convinta, vorrebbe dire: lo so di che cosa sta parlando la signora, lo so benissimo, è esattamente così, e all’improvviso, sul treno dei pendolari che scendono quasi tutti a Ladispoli (io proseguo per un altro quarto d’ora, aspetto Ladispoli per potermi sedere e quando leggo il cartello penso che non ho mai avuto il coraggio di dire alla baby sitter, che tornava a Ladispoli ogni sera, che La non era l’articolo determinativo di Dispoli: se a lei piaceva di più così, se era convinta quando parlava dei parenti di Dispoli, della spiaggia a Dispoli, del mercato immobiliare di Dispoli, io non volevo essere la guastafeste che rovina la realtà), all’improvviso su quel treno di gente stanca, nervosa, con gli occhi sul telefono, la bocca sul panino, le mani nelle tasche o sopra le borse per proteggerle, è entrata una storia che toccava tutti. Qualcosa con cui immedesimarsi, anche se lei aveva la minigonna di pelle, la schiena nuda e molti anni addosso, qualcosa che per molti voleva dire: anch’io. Anche io lo so che l’unico modo è prenderti a calci, come faceva quella. Anche io ho una gonna di pelle, fra trentacinque anni magari me la metto. Anche io vorrei che qualcuno mi tenesse delicatamente il polso e mi lasciasse sfogare la rabbia che ho. Ognuno di quei passeggeri, compresa me, aveva pronta una sceneggiatura per controllare la realtà, una spiegazione probabilmente sbagliata, una confessione urgente da fare. Un ragazzo e una ragazza, belli e pieni di tatuaggi (lei aveva un drago con le ali aperte sul braccio), si baciavano e si sono fermati, hanno riso guardandosi negli occhi, solo loro e nessun altro intorno, poi hanno ricominciato a incrociare tatuaggi e lingue. Che sollievo non essere come quei due vecchi, a cui è rimasto da scambiarsi soltanto un po’ di rancore. Forse l’hanno pensato. Ognuno aveva già messo a confronto un pezzo di sé con quella scena, con quella gonna di pelle nera, con quella bellezza di molti anni prima, che forse aveva lottato per l’uomo che le stringeva ora delicatamente il polso, e aveva dovuto aspettare troppo tempo, e invecchiare dentro i vestiti da ragazza bionda, e adesso non riusciva a smettere di essere arrabbiata. E’ perché tutto parla di noi, mentre tutti parlano di sé.
Perché in ogni romanzo, film, canzone, pettegolezzo da sera d’estate, quando crediamo di avere capito tutto delle vite degli altri guardando le foto su Facebook o credendo a ogni storia audace sugli amanti di luglio, stiamo cercando la spiegazione di noi stessi. Noi che non lo faremmo mai, noi che l’abbiamo fatto sempre, noi che però siamo meglio di così. E’ l’ossessione per l’autobiografia, per la possibilità sfacciata di ritrovare nelle vite degli altri la ragione di tutto quello che siamo: protagonisti delle nostre storie e testimoni di quelle degli altri, sempre con gli occhi che cercano il confronto. Nelle storie in cui inciampiamo, o in quelle che spiamo, quelle che manipoliamo con leggerezza. Con le storie degli altri spesso siamo inflessibili, a noi stessi e alla nostra autobiografia invece riconosciamo molte attenuanti, moltissime giustificazioni, molta tenerezza. Per questo quando ho letto per la prima volta “Vite che non sono la mia” di Emmanuel Carrère (Einaudi), e subito dopo “La vita come un romanzo russo” (Einaudi), li ho letti solo dopo il grande successo di “Limonov”, ed ero in treno in mezzo alle vite degli altri, o in spiaggia in mezzo ai corpi e ai figli degli altri, o al telefono dentro le confessioni degli altri e le mie, ho pensato che è quello il solo modo, il modo più sincero, di guardare le vite che non sono le nostre rivelando subito, e sempre, il vero motivo della passione e dello sgomento: io. Alberto Arbasino dice che è un ombelico noioso e per niente letterario, quest’ossessione per l’autobiografia, per le corsie d’ospedale, per il buco della serratura di stampo familiare, lo zucchero nel caffè e le lenzuola disfatte, invece Emmanuel Carrère dice (ha detto in un’intervista alla Paris Review) che “io”, un io anche piccolo, anche meschino, l’io di Carrère che si vergogna perché la fidanzata bellissima non possiede la sua stessa sicurezza sociale, ad esempio (è regale ma al tempo stesso plebea), il fastidio che ammette quando lei “spedisce curricula e chiede le ferie” è un giudizio su di sé che offre un’immagine sgradevole, certo, ma è un sollievo, è un’ammissione di verità: qualsiasi cosa accada, fuori e dentro di noi, ce ne assumiamo la responsabilità, la guardiamo diritta negli occhi, spieghiamo che posto abbiamo: testimoni o protagonisti, ma sempre rivolti in modo totalmente ma sinceramente egocentrico verso di noi, anche quando siamo meschini, traditori, superbi, anche quando succedono cose lontanissime da noi, che lontanissime, con questo filtro, non sono mai: “La mattina di sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand uccideva sua moglie e i suoi bambini, io ero a una riunione all’asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia. Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand. Più tardi siamo andati a pranzo dai miei genitori, e Romand dai suoi. Dopo mangiato ha ucciso anche loro”. E’ l’incipit, o forse il prologo de “L’avversario”, uscito nel 2000, ed è il modo potente in cui uno scrittore ha superato le inibizioni, la vergogna (che Truman Capote, ad esempio, in “A sangue freddo” non è riuscito a superare), la reticenza che le persone hanno nel dire “io” senza prendere le distanze: quell’uomo aveva ammazzato moglie, figli, genitori, è stato condannato all’ergastolo per avere ucciso le persone di cui non poteva più reggere lo sguardo, Carrère lo ha raccontato dicendo “io”, ha cercato di capire che cosa lo toccava di quella storia e che cosa tocca, quindi, ciascuno di noi. E’ quello che chiediamo a ogni storia, che ci parli di noi, che ci assolva, che ci dia una spiegazione o un sollievo: così un grande scrittore riesce a trasformare la vita in letteratura dicendo “io” anche mentre racconta lo tsunami in Sri Lanka che l’ha solo sfiorato, e il cancro della sorella della fidanzata, e il suo lavoro di giudice di provincia, e i sentimenti anche di invidia che lo accompagnano in quel viaggio nella vita degli altri, in cui dentro ogni storia, anche dentro l’ombelico meno scintillante, come direbbe Arbasino, c’è la scintilla del mondo intero, tutti i volti dell’esistenza. Hèlene, la fidanzata di Carrère, a un certo punto ride: “Non conosco nessun altro capace di pensare che l’amicizia tra due giudici zoppi e malati di cancro intenti a spulciare cause di sovraindebitamento al tribunale di Vienne sia un soggetto d’oro. Per di più non vanno neanche a letto insieme e alla fine lei muore. Ho riassunto bene? E’ questa la storia? Ho confermato: è questa”. E’ questa la storia, ed è la storia di tutti, la paura di tutti, il significato della vita di tutti. Anche lo strazio di ognuno. Perché c’è dentro quello che fa più paura (perdere un figlio, ammalarsi, non farcela, smettere di combattere), ma c’è anche la nostra infelicità immaginaria a confronto con le vite degli altri, e che sia immaginaria non significa che pesi meno sulla nostra vita. Ora che le vite raccontate da Carrère erano per me l’ossessione dell’estate (a settembre uscirà in Francia il suo nuovo libro, si intitolerà “Il regno”, seicento pagine in cui Carrère racconterà la nascita del cristianesimo e spero che lo farà con il respiro egocentrico e sincero con cui racconta i segreti della sua famiglia, e l’ossessione gelosa e distratta per la sua fidanzata, e l’idea folle di pubblicare un racconto erotico sul Monde che avrebbe dovuto irrompere nella realtà e regalare conseguenze fantastiche, sexy e di successo, e invece ha distrutto tutto), allo stesso modo ogni storia d’estate diventava la mia storia: un amico confessava, non troppo riservato, l’avventura esaltante con una ragazza di qualche decennio in meno, noi con qualche decennio in più ridevamo, brindavamo: a Giorgio, finalmente, sbattevamo i bicchieri con una esagerata euforia, ma attorno a quel tavolo e negli sguardi di tutti, uomini e donne, c’era una sola domanda: e io? Io che mi sono separato da due anni e non ho più avuto nessuna, e una volta sono andato a un appuntamento di quelli presi nei gruppi online, e mi è venuta la tristezza e sono scappato via quando ho visto che lei aveva le unghie finte, e mi piace tanto lei, seduta qui accanto a me con i capelli bagnati e gli occhi che luccicano, ma lo so che non mi vuole. Io che non ho vent’anni ma quarantacinque, e lui non ha mai lasciato la moglie nemmeno quando ci ha beccati ed è successo di tutto, anche di me qualcuno dirà a tavola agitando le mani che sono sconvolgente? Io che sto attenta soltanto a che i bambini non muoiano tuffandosi dagli scogli e a che non mi licenzino, mi posso scandalizzare o devo ridere? E perché mio marito non mi guarda, adesso? Dentro tutte queste vite che non sono la mia ci sono le storie degli altri, i pensieri reconditi, l’ossessione per l’autobiografia, l’impossibilità di non pensare sempre: io. In “Vite che non sono la mia” Delphine ha perso per sempre Juliette, la sua bambina di quattro anni, per lo tsunami: la cosa più terribile che possa accadere, poche sere prima le sistemava i peluche tutt’intorno al letto, le rimboccava le coperte, e adesso deve cercare il suo corpo negli ospedali intorno. Fino alla fine della vita i peluche le strazieranno il cuore. Tutti pensiamo immediatamente: e io? Se succede a me? Come fare a non odiare tutti i bambini del mondo con i loro genitori, tutti i sopravvissuti, “come non pregare: mio Dio, fai un miracolo, rendimi la mia, prendile il suo, fai che sia lei a provare il male che provo io e io a essere come lei triste di quella tristezza confortevole e munifica che aiuta soltanto ad assaporare meglio la propria fortuna?”. E’ quello che ci lega gli uni agli altri, il pensiero spontaneo e spaventoso, ombelicale forse, ma vero, lo sguardo costantemente autobiografico sulle vite che non sono le nostre. La distanza che ci separa, o le cose che ci avvicinano, quelle che crediamo di conoscere e che invece ci sorprendono sempre per quanto sono diverse, per quanto si ribellano al modo in cui pensiamo di tenere sotto controllo la realtà, agganciarla all’idea che ci siamo fatti, alla versione che ci hanno raccontato e a cui desideriamo ardentemente credere. Del resto non c’è molto altro: la tua versione, di cui so poco o niente, e la mia versione, di cui sai poco o niente. In mezzo tutto quello che immaginiamo di sapere e non sappiamo. E la signora con la gonna di pelle sul treno, che dice: l’unico modo con te è prenderti a calci, e ci fa pensare ai calci che non abbiamo mai dato, a quelli presi. Con lo sguardo costantemente rivolto all’interno, verso di noi anche mentre crediamo di uscire dall’ombelico leggendo la storia di Limonov, o di Olive Kitteridge, la protagonista del romanzo di Elizabeth Strout che vinse il Premio Pulitzer nel 2009. Un’insegnante in pensione, ingrossata negli anni, con un caratteraccio e l’implacabile istinto di demolire quelli che le stanno accanto, senza accorgersene, senza accorgersi nemmeno del gelato che le cola sulla camicetta. Si infuria con il figlio adulto perché non le ha fatto notare quella macchia di gelato, anzi di salsa al caramello, sulla camicetta bianca, l’ha lasciata lì a rovesciarsi la roba addosso, come una vecchia zia incapace di mangiare senza sporcarsi. E io?, è la domanda costante. E io che ti ho cresciuto, pulito, educato, preso a sberle anche, io che adesso sono qui per aiutarti, io non esisto più, nemmeno con il caramello che mi cola addosso? E’ quello che chiediamo agli altri, sempre: di accorgersi di noi. Di far combaciare la loro versione con la nostra. Di lasciarci dire: io, anche mentre siamo impegnati in tutt’altro, anche mentre la vita ci porta dentro altri mondi. Fino a che, come succede a Olive Kitteridge la burbera, guardiamo le persone che ci stanno accanto e immaginiamo due fette di formaggio svizzero premute insieme: i buchi che ciascuno ha da dare all’altro, i pezzi che la vita ti leva di dosso, e ancora il buco impossibile da riempire senza le vite che non sono la nostra, da immaginare, avvicinare, raccontare, per poter dire ancora una volta: io.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.