L'Avvocato Gianni Agnelli con i nipoti Andrea, Lapo e John Elkann, Anna e Ginevra

Capitali senza figli

Stefano Cingolani

Dagli Olivetti ai Merloni, dai Berlusconi agli Agnelli. Come non far morire le dynasty dell’imprenditoria italiana. Che cosa succede se la prole spreca i suoi talenti, se la sindrome dei Buddenbrook s’impadronisce della discendenza, se il seme del capitale viene disperso nell’oceano globale?

Che cosa succede se la prole spreca i suoi talenti, se la sindrome dei Buddenbrook s’impadronisce della discendenza, se il seme del capitale viene disperso nell’oceano globale? Dagli Olivetti ai Merloni, è sempre la stessa storia, ma non è la fine del capitalismo. I gruppi che vogliono competere devono affidarsi a un professionista della gestione. Le piccole aziende guidate da innovatori di prima generazione vanno aiutate a crescere e mettersi insieme, quelle medie devono essere instradate verso la Borsa e sottratte alla dipendenza sempre più tirannica delle banche. Ma i genitori debbono uscire di scena non appena i figli hanno imparato a volare.

 

Bruno Visentini la chiamava “forza virile dell’imprenditore” e la voleva sempre al comando anche nelle grandi imprese. Era il 1987 e imperversava la battaglia tra funzionari del capitale che volevano diventare capitalisti (come Mario Schimberni alla Montedison sulle orme del suo predecessore Eugenio Cefis) tra uomini nuovi che sfidavano il vecchio establishment come Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi, Raul Gardini. Altri tempi, l’ultima epoca d’oro del capitalismo privato mentre il capitalismo di stato scoppiava d’indigestione.

 

Parlava bene il Visentini che, tra lezioni universitarie, sedute in Parlamento, decreti fiscali (come ministro delle Finanze) e anelli wagneriani a Bayreuth, aveva presieduto per vent’anni la Olivetti dopo la ritirata della famiglia. Sapeva, dunque, cosa succede se la prole spreca i suoi talenti, se la sindrome dei Buddenbrook s’impadronisce dell’intera discendenza, se il seme del capitale viene disperso nell’oceano globale. Dagli Olivetti ai Merloni, è sempre la stessa storia, ma non è la fine del capitalismo.
E’ presto per cantare il de profundis come fa la Repubblica. Quel che avviene sotto i nostri occhi è il faticoso, contraddittorio, adattamento dell’economica italiana alle nuove condizioni del mercato mondiale e ai nuovi rapporti di forza in occidente.

 

Questa metamorfosi ha portato alla ribalta un modello ancora in nuce. E’ quello che Marco Fortis chiama “le nicchie di eccellenza” e si regge sulle gambe del “quarto capitalismo” analizzato da Fulvio Coltorti fin da quando guidava l’ufficio studi di Mediobanca. Si può definire modello perché affonda le sue radici nella storia manifatturiera dell’Italia e ormai ha caratteristiche ben definite e in qualche modo strutturate. Anche se, nonostante la Grande Recessione, è riuscito a difendere la quota dell’Italia nel commercio internazionale, resta ancora nel bozzolo perché non ha trovato la dimensione sistemica che lo può far decollare. Sarebbe davvero interessante se, invece di lamentarsi sui Merloni perduti, si cominciasse davvero un dibattito su come far sì che nuovi Merloni vincano la loro guerra di mercato.

 

E’ una dynasty di provincia quella della famiglia di industriali marchigiani che hanno cominciato nel secondo Dopoguerra facendo caldaie; è la dinasty dei “metalmezzadri”, come l’economista Giorgio Fuà chiamava gli artigiani e piccoli industriali nati dall’agricoltura mezzadrile che hanno trasformato la costa Adriatica in una fabbrica diffusa lungo centinaia di chilometri dall’Abruzzo al Veneto. La famiglia si era già divisa alla morte del fondatore Aristide: i tre figli avevano preso ciascuno un ramo dell’azienda, gli elettrodomestici erano andati a Vittorio che, da Ariston a Indesit ha costruito un gruppo multinazionale. La Grande Recessione che ha colpito frigo e lavatrici forse ancor più delle automobili, la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, la esigenza di crescere e investire capitali su capitali, più il calo del desiderio, sì di quella passione che spinge il “virile” industriale a reinventare sempre se stesso, ebbene la combinazione di questi fattori ha indotto anche i figli di Vittorio, da tempo gravemente malato, a mollare. Hanno venduto a un ottimo acquirente come l’americana Whirlpool che spende 768 milioni di euro per aumentare la sua presenza in Italia. Solo Maria Paola, ormai in politica prima col Pd e adesso senatrice eletta con la lista Monti, si tiene una piccola quota, per affezione.

 

E i Merloni non sono gli unici, anzi. Il capitalismo italiano non sta morendo, ma il capitalismo delle grandi famiglie, quello sì, è arrivato al punto di non ritorno. Degli imprenditori che hanno retto la Confindustria nei ruggenti anni Ottanta non è rimasto più nessuno. Luigi Lucchini si è spento un anno fa, all’età di 94 anni, ricevendo l’elogio della Cgil verso un “interlocutore aspro, ma rispettoso”; però aveva già ceduto le armi di fronte all’offensiva dei russi di Severstal. Il re del tondino era ricco e felice finché non aveva deciso di fare il passo più lungo della gamba, partecipando al banchetto delle privatizzazioni. Dello spezzatino Italsider, a lui era toccato lo stabilimento di Piombino, ma gli acciai speciali si sono rivelati un business mangiasoldi e nel 2005 il vecchio “padron delle ferriere” cedeva i due terzi del gruppo, poi nel 2010 anche l’ultimo pacchetto del 20 per cento.

 

Il suo successore in Confindustria, Sergio Pininfarina, il grande carrozziere che aveva firmato i modelli più belli quando le auto italiane (soprattutto l’Alfa) facevano levare il cappello al vecchio Henry Ford e la Volkswagen le copiava, è morto nel 2012 ma aveva già lasciato le redini al figlio. Andrea aveva la tempra dell’innovatore (Business Week lo aveva inserito tra le 25 star europee), sennonché nel 2008 viene ucciso in un incidente stradale. L’azienda passa al fratello Paolo, ma non regge. Nel 2011 chiude anche l’ultimo stabilimento. Adesso, nelle mani del finanziere francese Vincent Bolloré, progetta vetture elettriche.
Pietro Marzotto, “il sior conte”, è passato dalle lane ai prosciutti (sia pur di lusso perché sono quelli della boutique milanese Peck) dopo che la roccaforte di Valdagno è stata dilaniata da conflitti familiari durati oltre un decennio. Il gruppo si è ritirato dalla moda (Valentino e Hugo Boss sono stati venduti) nella quale Pietro aveva creduto fin troppo, ed è tornato all’antico (tessuti e filati), mentre il controllo è passato in mani amiche al conte Andrea Donà Dalle Rose. Ma con settanta successori, arrivati alla sesta generazione, siamo di fronte a un ibrido, una sorta di public company familistica.

 

Guerre tra parenti, padri contro figli, una tragedia greca in salsa emiliana è quella che dilania i Caprotti. Lo scontro tra Bernardo – che nel 1957 insieme alla Rinascente e a Nelson Rockefeller ha aperto la Esselunga, il primo supermercato italiano – e l’erede designato, non solo non è mai finito, ma si è esteso all’intera prole. A Giuseppe, avviato da tempo alla successione, viene lasciata interamente in mano la gestione solo nel 2002. Il patron resta dietro le quinte, divide la proprietà in parti uguali tra i tre figli (ci sono anche Violetta e Marina Sylvia) e si tiene l’usufrutto del 51 per cento vita natural durante. Il passaggio di testimone dura appena due anni. Finché un giorno si presenta in azienda con quattro Mercedes nere: le prime tre per accompagnare fuori i top manager e la quarta destinata a suo figlio. Bernardo Caprotti racconta la sua versione nel pamphlet di successo che attacca le Coop rosse (“Falce e carrello”, Marsilio) e adombra un complotto ordito insieme ai sindacati per sottrargli “la roba”. Giuseppe, che poi si è dedicato con un certo successo alla finanza, dà una lettura molto diversa. Mr. Esselunga si è ripreso l’intera titolarità delle azioni, finendo in tribunale. Ora, le volontà del fondatore (89 anni) sono chiuse nel testamento in mano a un notaio.

 

Ci sono altri casi clamorosi di moderni Crono, come Tommy Berger di origine ebraico-viennese, fondatore del Caffè Hag, che s’è divorato il figlio Roberto. Anche questa storia è finita in un libro (“Onora il padre”, sempre Marsilio). Ma i dolori della successione travagliano persino Luxottica. Leonardo Del Vecchio, classe 1935, sei figlie da tre donne diverse, aveva provato nel 2010 a fare un trust familiare, dividendo in parti uguali le quote della sua Delfin. Questo succedeva prima di convolare a nozze con la sua seconda compagna, Nicoletta Zampillo, a cui per legge spetta un quarto del patrimonio. E così Del Vecchio ha sospeso il processo senza decidere. Il figlio Claudio che ha lanciato l’azienda negli Stati Uniti, vive a New York dove ha comperato e rilanciato Brooks Brothers. E non intende tornare in Italia. Del Vecchio ha scelto un manager esterno al quale affidare il suo colosso degli occhiali (si tratta di Andrea Guerra al quale Matteo Renzi aveva offerto un ministero) e fin da subito ha escluso i figli dalla gestione, nonostante diverse sollecitazioni da parte di consulenti fidati. Tuttavia, all’alba dei suoi 79 anni non ha ancora sciolto le riserve sul futuro di Luxottica che dipende soltanto da lui.

 

Nemmeno i Benetton hanno ceduto il testimone. Luciano (classe 1935) Giuliana (1937), Gilberto (1941) e Carlo (1943) controllano il 25 per cento ciascuno di Edizione che possiede Autostrade, Autogrill e il comparto abbigliamento. Mentre tre fratelli hanno quattro-cinque figli ciascuno, Gilberto lascerà l’intero pacchetto alla discendente diretta, Sabrina. L’unità familiare viene messa alla prova proprio ora che si è deciso di voltare pagina nella società di abbigliamento dove tutto è cominciato. Ceduti i marchi minori, ci si concentra su Sisley e Benetton. L’azienda sarà divisa in tre parti, quella immobiliare, quella industriale e quella commerciale, dello stile e della comunicazione. Alessandro aveva il physique du rôle per diventare il successore del padre Luciano (bella presenza, master a Harvard, moglie famosa, la campionessa di sci Deborah Compagnoni), ma dopo un tentativo durato due anni, si è tirato indietro lasciando spazio a un professionista come Gianni Mion.
La presenza ingombrante del padre resta anche là dove s’è affrontata per tempo la successione. Carlo De Benedetti ha passato ai figli tutto tranne la Repubblica-Espresso, ma nessuno può dire che si sia fatto sottile come carta di riso. A Rodolfo è toccato il compito più difficile, gestire il gruppo Cir rinato dalle ceneri della sconfitta in Belgio nel 1988 e di Tangentopoli. Ha puntato sull’energia, ma la Grande Recessione lo ha messo in ginocchio. Ora Sorgenia è stata salvata dalle banche che ne detengono il controllo. Rodolfo, uomo colto, garbato e timido che poco assomiglia al padre sia nel fisico sia nel carattere, ha ammesso la sconfitta e si è rimboccato le maniche. Dovrà ricominciare per l’ennesima volta, mentre l’editoria rischia a questo punto di fagocitare tutto quel che resta.

 

Non è riuscito a Cesare Romiti il sogno di trasformarsi da grande manager in grande capitalista, un progetto affidato ai figli Maurizio e Pier Giorgio. Sono falliti sia il progetto di un polo finanziario-industriale mettendo insieme Marzotto, Rizzoli e importanti partecipazioni bancarie (Commerciale, Credito Italiano), affidato a Maurizio, sia l’idea di un colosso delle infrastrutture con Impregilo guidata da Pier Giorgio.

 

Le cose sono andate meglio in casa Berlusconi nonostante le tensioni inevitabili tra la prima e la seconda famiglia. La scelta chiave è stata quella di affiancare i rampolli a due manager di spessore: Pier Silvio in Mediaset è stato svezzato da Fedele Confalonieri, Marina in Mondadori da Maurizio Costa. Intanto Barbara si fa le ossa nel Milan secondo una tradizione inaugurata dagli Agnelli con la Juventus, destinata ai cadetti.

 

Proprio gli Agnelli, la famiglia reale del capitalismo italiano, hanno rischiato di perdere tutto dopo la morte di Gianni e del fratello Umberto. Non è mai stata facile la successione in casa Fiat, attraversata da tragedie umane (si pensi al suicidio di Edoardo, il figlio dell’Avvocato) o maledizioni del caso (come la morte improvvisa a soli 33 anni di Giovanni Alberto, figlio di Umberto). Per un quarto di secolo è toccato gestire gli affari a un uomo di massima fiducia come Vittorio Valletta che mai avrebbe pensato di farsi re. Poi nel 1976 è Cesare Romiti a salvare, con il sostegno di Cuccia, un gruppo arrivato al lumicino. Nel biennio terribile 2003-2005 l’addio della famiglia viene evitato grazie a due mosse audaci: primo blindare la proprietà, ricorrendo a una manovra finanziaria ai limiti della legge, poi scegliere un manager di prim’ordine come Sergio Marchionne. A John Elkann, nipote dell’Avvocato, il compito di mantenere gli equilibri nel clan, composto ormai da un centinaio di membri, grazie alla quota prevalente lasciatagli dal nonno.

 

Proprietà sotto controllo, più un professionista dotato di ampi poteri. E’ la formula Fiat dell’ultimo decennio che ha consentito anche di cogliere al volo la più grande (e rischiosa) delle occasioni come acquisire la Chrysler già rifiutata da Romiti e dagli Agnelli negli anni Novanta. Vedremo dopo la fusione e la quotazione a Wall Street quale sarà la posizione della famiglia nella nuova compagnia italoamericana che si fa sempre più globale. E ci saranno certamente nuove alleanze, con Volkswagen o qualche altro grande produttore, soprattutto in Europa e in Asia. Tuttavia la vicenda Fiat rappresenta un punto di riferimento. Sulle sue orme si è mossa, per diventare leader mondiale nei giochi e nelle scommesse, anche la De Agostini, controllata dalle famiglie Boroli e Drago. La polemica sulla sede a Londra è davvero di retroguardia. Milano non è mai riuscita a uscire dalla sua dimensione provinciale, non è lì che si capisce cosa accade nel mondo. Quanto alle tasse, è ora che l’Italia riduca le imposte, magari non così tanto come in Irlanda, ma almeno in linea con la Germania. Ampliare la base imponibile è più importante che alzare le aliquote soprattutto in un mondo in cui la concorrenza passa più per il fisco che per la valuta.

 

Meglio smetterla con le geremiadi sulle imprese vendute allo straniero, da Loro Piana a Bulgari (due che hanno venduto al massimo intascando una barca di quattrini), da Parmalat ad Acqua di Parma, da Poltrona Frau a Ducati, ecc. ecc. Perché mai fanno più notizia di quelle comprate dagli italiani? Da Brembo a Campari, da Gtech (De Agostini), a Cremonini, da Ferrero a Zanetti o alla Ima (macchine automatiche), solo per citare alcune acquisizioni dall’inizio dell’anno per un valore di circa quattro miliardi di euro superiore al valore delle imprese cedute nello stesso periodo.

 

E la successione? I grandi gruppi che vogliono competere devono affidarsi a un professionista della gestione. Le piccole aziende guidate da innovatori di prima generazione vanno aiutate a crescere e mettersi insieme, le medie che hanno già raggiunto la prima meta, debbono essere instradate verso la Borsa e sottratte alla dipendenza sempre più tirannica delle banche. Nel suo romanzo “Le mosche del capitale” Paolo Volponi, scrittore comunista stipendiato prima dalla Olivetti poi dalla Fiat, aveva paragonato l’impresa capitalistica a Leopold Mozart, il padre di Wolfgang Amadeus: “A me sembra che siano identici, simili nella natura di promotori organizzatori persecutori e consolatori”. Ma i genitori debbono uscire di scena non appena i figli hanno imparato a volare.

Di più su questi argomenti: