Pietro Grasso

Chi carica la seconda carica

Tra Scalfaro e Camusso. Grasso e il senso politico della sua sfida a Renzi

Claudio Cerasa

La lotta del presidente tra pressioni  dei funzionari, eredità del governo del cambiamento e sogni quirinalizi.

Quando arrivi al Senato, sali al primo piano di Palazzo Madama, trascorri qualche minuto di fronte ai banconi della buvette e percorri un paio di volte i corridoi che accompagnano i parlamentari in Aula con alcuni vecchi senatori di centro, di destra e di sinistra con molto pelo sullo stomaco e molte battaglie alle spalle, capisci che dietro la battaglia sulla riforma del Senato non c’è un semplice scontro politico ma ci sono una serie di non detti e una serie di questioni implicite che vale la pena di approfondire e che in qualche modo riguardano anche il presidente Pietro Grasso – presidente diventato, in un modo o in un altro, principe della resistenza (e dell’esistenza) di Palazzo Madama.

 

Quella di Grasso, ex magistrato, uomo politicamente non troppo alfabetizzato e piazzato dall’ex segretario Pier Luigi Bersani alla guida del Senato per cercare di conquistare (ricordate?) l’elettorato del Cinque stelle, è una storia che vive a metà tra le figure di Susanna Camusso e di Oscar Luigi Scalfaro. E’ un po’ Scalfaro, Grasso, in quanto esprime in modo trasparente la sua profonda ribellione contro “la deriva autoritaria” ppresunta del governo. Da questo punto di vista la sua scelta irrituale di dare l’ok al voto segreto per alcuni emendamenti previsti al ddl Boschi e di assecondare le richieste degli ostruzionisti – ostruzionisti che, scherzi del destino, o forse no, coincidono con le stesse forze politiche che il Pd avrebbe voluto conquistare portando Grasso al Senato (la quasi totalità degli 8.000 emendamenti presentati provengono da Sel e dal M5s) – somiglia molto al famoso “non ci sto” di Scalfaro e alle invettive lanciate dall’ex presidente contro le riforme costituzionali del governo Berlusconi. Non ci sto, dice Grasso, e non ci sta a tal punto che, a proposito di atti irrituali, il presidente ha persino scelto di accettare la richiesta di votare in segreto alcuni emendamenti presentati dalle (sue) opposizioni nonostante la Giunta per il regolamento, convocata dallo stesso Grasso, avesse dato parere negativo. Invece no. Io non ci sto.

 

Nella storia del presidente che avrebbe dovuto accendere la miccia del governo del cambiamento e che si ritrova oggi a essere custode di una certa conservazione (anche per accreditarsi con le opposizioni che, un domani, potrebbero essere decisive nell’eleggere non il presidente del Senato ma il presidente della Repubblica) c’è però un capitolo importante che riguarda la trasformazione della seconda carica dello stato nella Camusso di Palazzo Madama. Anche i sostenitori di Grasso riconoscono infatti che dietro la stoica resistenza c’è un problema che riguarda quella che a Palazzo Madama, tra un Campari, una spremuta d’arancia, una chiacchiera su Mineo, una malizia su Minzolini, una battuta con Marini, tutti identificano in una figura mostruosa chiamata “tecnostruttura”. Qui non si tratta di chiacchiericcio, ma di un punto centrale che riguarda due nodi ben intrecciati tra loro. La resistenza di Grasso è anche la resistenza espressa da una vecchia e imponente struttura (981 dipendenti) composta dai molti funzionari di Palazzo capitanati dal segretario generale del Senato (Elisabetta Serafin) che vede con preoccupazione la rottamazione degli attuali assetti di Palazzo Madama e che oggi osserva il presidente del Senato come l’ultimo baluardo nella difesa dei propri diritti e del proprio futuro (e chissà se è solo un caso che il capo dei ribelli del Pd, Vannino Chiti, sia stato a lungo ai vertici del Palazzo, come vicepresidente del Senato). Ma la figura di Grasso ha un peso anche per altre ragioni.

 

A Palazzo Madama in molti notano che sono gli stessi funzionari del Senato a cui Grasso è molto legato ad aver aiutato i senatori di Sel a costruire in modo impeccabile i propri emendamenti e in molti si soffermano sul fatto che la posizione del presidente rappresenti anche la voce di quella parte della magistratura che si sente presa di mira dal governo Renzi. C’è del vero in tutto questo. Ma al di là del percorso che prenderà il pacchetto delle riforme, il fatto più importante è che Grasso ha scelto di scendere in campo per rappresentare una storica corrente della politica: il tradizionalismo costituzionale. La riforma del Senato alla fine forse si farà, il voto è calendarizzato per l’8 agosto, la conferenza dei Capigruppo ha deciso per il contingentameno dei tempi, il ministro Boschi ha detto che la riforma una volta approvata sarà soggetta a referendum, Sel sta solo alzando il prezzo della sua futura alleanza con Renzi ma un fatto incontestabile c’è. Combattendo questa battaglia Grasso è diventato, con un occhio al futuro, il portavoce del dissenso al regime renziano e il portavoce di ciò che rimane del governo del cambiamento. Mosse, contromosse, strategie, orizzonti. Tutto è possibile e tutto è in movimento. Se poi il “cambiamento” corrisponda più alla parola “progresso” o alla parola “conservazione”, oggettivamente è tutto un altro discorso.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.