Mauro Rostagno

Storia italiana, tragica, con sorriso

Franca Fossati

Sofri su Rostagno, 26 anni di malagiustizia con happy ending.

Credevo di sapere molto su Mauro Rostagno e sul processo concluso con la condanna dei suoi assassini mafiosi, però “Reagì Mauro Rostagno sorridendo”, di Adriano Sofri, appena uscito per Sellerio, appassiona come una storia nuova. Si parla di Mauro, certo, delle sue molte vite (“di tutti quelli che ho conosciuto, era il più pronto a prendersele tutte”), e si parla delle donne che più lo hanno amato, sua moglie Chicca e sua figlia Maddalena. E del giorno della sua morte. E della terra di nessuno in cui è stato costretto il suo fantasma (non il suo spettro, ciò che fa qualche differenza) per tanti anni. Ma di molto altro, si parla.
Il processo, innanzitutto.

 

Abituati al bombardamento delle cronache giudiziarie che si intrecciano e si sostituiscono alla politica, pasciuti come siamo dalle condanne preventive su giornali e tv, il senso di quanto avviene davvero nelle aule di un tribunale s’era come smarrito. Sofri ce lo restituisce. Ti resta, dal suo volumetto, un risarcimento civile, un desiderio rinnovato di guardare la semplicità concreta del palcoscenico. “Quando la disgrazia fa irruzione, al suo seguito entrano sciami di investigatori, perquisitori, curiosi… e l’indiscrezione, che ha già coperto di oscenità tante prime pagine, celebra il suo trionfo nel processo”.  Se la ricostruzione è paziente, d’altronde, e competente il dovuto, e governata dalle regole del diritto (il libro rende omaggio ai giudici trapanesi che hanno preso in mano l’inchiesta abbandonata, o peggio, mai veramente iniziata 26 anni prima), allora emergono squarci di verità, volti, personaggi, storie. Non solo dei pentiti da cento (duecento) omicidi. Dei mafiosi per nascita e per destino, carcerati per gli orrendi delitti e presentati come inusitatamente capaci di improvvisi sprazzi di candore. Ma anche di carabinieri distratti, accecati dal pregiudizio o da (inconsapevoli?) complicità. E di magistrati incapaci e superficiali, così come di testimoni reticenti. Di un pezzo d’Italia, insomma, ma finalmente scrostata dall’intonaco pruriginoso del luogo comune. Imprevedibilmente, il libro di Sofri, autore sui generis dalla vita scandita e travolta a suo turno dai processi, celebra le virtù del processo penale: “Il peggior modo di fare giustizia, a parte tutti gli altri”.

 

Poi, la storia del processo si intreccia con quella della vittima. E quella della vittima, a sua volta, torna indietro per infilarsi nella vita di chi scrive, che di Rostagno era amico (non “il migliore”, e lui se ne rammarica un poco). Per chi li ha conosciuti allora, negli anni Settanta, e narcisismi a parte, due tipi più diversi di Sofri e Rostagno non si potevano trovare. Lucido e sferzante nelle parole, più efficaci ancora se affidate alla scrittura, il primo. E il secondo funambolico, intuitivo, trascinatore: “Le sue idee erano inservibili senza di lui, fantastiche in lui”. Mi sono spesso chiesta, io che delle primissime file di Lotta Continua non partecipavo, come fosse la relazione tra i due. C’era un certo timore verso Sofri, misto ad ammirazione. Mauro era altro. Dopo un’alba di volantini all’Autobianchi, consigliava di saltare la riunione, torna a casa, dài, sdraiati sul letto, ascoltati un disco dei Ten Years After. Ecco. Racconta, il libro, dell’amicizia tra Mauro e Adriano. Tra quel barbuto dirigente politico che “aveva un’aspirazione irresistibile a non essere il primo… aveva imparato che essere primo riduce drammaticamente la libertà”, e un “primo”  per definizione. Il quale, e le pagine ne sospirano, porta ancora oggi i pesi e le responsabilità di una classifica che, accidenti a lei, una volta stabilita non si cancella più.

 

Ergastolo, ha sanzionato il processo di Trapani.  Si può, però? Si può, cioè, gioire per l’ergastolo agli assassini del tuo amico? E rincuorarsene per il risarcimento simbolico che esso rappresenta verso i suoi cari? Eppure continuando, lo stesso, a rimanere nemici giurati dell’ergastolo? Dice di sì, Sofri, e racconta la sua pena. Racconta di essersi scambiato lettere con l’imputato Mazzara, di aver, proprio con lui, parlato dell’ergastolo. Arrivando a immaginare, “anche se non si dovrebbe spingersi all’invadenza di figurarsi che cosa farebbe un morto ammazzato al suo assassino”, la reazione impossibile del Mauro vivo. Avrebbe guardato  il suo assassino, sorridendo. Dove la contraddizione rimane limpida e l’affetto, ma nemmeno l’umanissima soddisfazione, ce la fanno a velarla.

 

Non solo cuore del processo di Trapani, quindi pugno capace di frantumare la difesa dei due imputati, la faccenda del Dna batte come uno dei cuori del libro. Faccenda non semplice da seguire. Tanto che, nel dibattimento, “fu una gara a chi si dichiarasse più pienamente e compiaciutamente ignorante di quella diavoleria, come se fosse stata inventata il giorno prima, e a tradimento”. Siamo pigri e siamo tutti un po’ conservatori. Basta saperlo e, soprattutto, vergognarsene quel tanto (laddove si deve), e soprattutto basta a noi, che siamo semplici mortali. Ma la giustizia no, la giustizia non può. Si adegui, perciò, la signora giustizia. Studi il professor Alec Jeffreys (pagina 83), o il caso di Buckland, o le statistiche in Irlanda, e affronti la fatica che compete a chi tiene tra le mani la libertà degli individui. Fatica, si chiama. Una conseguenza diretta della responsabilità. Ventre a terra, giudici e avvocati, scrive  dunque Sofri. Che abbia torto non pare. Infatti, soltanto 26 anni dopo, almeno a Trapani è andata.

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