Il biografo di Wojtyla contro le balle sull'Ostpolitik (e contro Sodano)

Redazione

Mentre il mondo ha commemorato il venticinquesimo anniversario delle elezioni polacche del giugno del 1989, che portarono al potere per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale un primo ministro non comunista, in Vaticano si è tenuta una conferenza, “La chiesa nel momento del Cambiamento nell’Europa centro-orientale fra il 1980 ed il 1989” – l’abitudine di dare titoli succinti e d’effetto non si è particolarmente sviluppata a Roma.

    Mentre il mondo ha commemorato il venticinquesimo anniversario delle elezioni polacche del giugno del 1989, che portarono al potere per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale un primo ministro non comunista, in Vaticano si è tenuta una conferenza, “La chiesa nel momento del Cambiamento nell’Europa centro-orientale fra il 1980 ed il 1989” – l’abitudine di dare titoli succinti e d’effetto non si è particolarmente sviluppata a Roma. Ci sono state testimonianze commoventi, da parte dell’ex leader di Solidarnosc, Lech Walesa, e degli ucraini che al giorno d’oggi stanno vivendo un dramma simile. E poi, il discorso del cardinale ex segretario di stato (nonché attuale decano del Sacro collegio), Angelo Sodano.

     

    La parte fondamentale delle considerazioni di Sodano si è incentrata sui risultati raggiunti da Giovanni Paolo II durante gli anni Ottanta nell’Europa centrale e orientale; risultati che erano stati “preparati” dalla Ostpolitik vaticana negli anni Settanta, sotto la guida di Paolo VI, del suo capo diplomatico, l’arcivescovo Agostino Casaroli, e del principale assistente di Casaroli, monsignor Achille Silvestrini (entrambi sarebbero poi diventati cardinali). Sodano ha posto particolare enfasi sull’incontro avvenuto nel 1977 fra Paolo VI e il leader del Partito comunista polacco, Edward Gierek, e sulle conversazioni di Casaroli e Silvestrini con il membro del politburo polacco Stefan Olszowski. Tutti questi eventi, ha concluso Sodano, sono paragonabili al Battista che prepara la venuta del Signore.

     

    Al di fuori di alcuni circoli italiani, sarebbe difficile trovare uno storico di livello che creda al fatto che tale analisi sia sostenibile.
    L’Ostpolitik di Paolo VI – che si preoccupava di non condurre “una politica di gloria” – era basata sulla premessa che la divisione data dalla Guerra fredda in Europa sarebbe stata una caratteristica del panorama internazionale per decenni, se non per centinaia di anni; che la chiesa avrebbe dovuto “salvare il salvabile” facendo qualsiasi accordo possibile con i governi comunisti; e che la critica cattolica per le violazioni dei diritti umani perpetrate dai regimi comunisti avrebbe dovuto cessare. I risultati di tale strategia portarono alla distruzione della chiesa in Ungheria (i cui leader divennero accessori del Partito comunista ungherese), alla penetrazione totale delle agenzie di intelligence del Patto di Varsavia in Vaticano (a beneficio dei negoziatori comunisti); e infine al progressivo indebolimento dei leader cattolici in Polonia e in quella che allora era la Cecoslovacchia.

     

    L’approccio di Giovanni Paolo II all’Europa centro-orientale era basato su differenti premesse: che la divisione postbellica dell’Europa fosse immorale, nonché storicamente artefatta; che le violazioni da parte dei comunisti dei diritti umani fondamentali dovessero essere chiamate con il loro nome; e che le “nazioni prigioniere” potessero infine trovare strumenti di resistenza cui il comunismo non avrebbe potuto far fronte, se avessero rivendicato la verità religiosa, morale e culturale per loro stesse, e se avessero vissuto tali verità senza paura. Giovanni Paolo II lasciò, in modo scaltro, che l’approccio diplomatico continuasse a essere quello di Casaroli e Silvestrini. Ma, dietro questo approccio di facciata – “Vedete, non è cambiato nulla!” – il Papa polacco portò avanti una campagna di resistenza al comunismo guidata dalla moralità, che trovò giustificazione nella Rivoluzione del 1989: un evento storico complesso, certamente, ma per il quale la Ostpolitik vaticana non può rivendicare alcun merito in modo credibile.

     

    Il rifiuto da parte dei diplomatici della curia italiana come il cardinal Sodano di riconoscere la verità sui nefandi effetti della Ostpolitik sulla sicurezza e l’integrità della Santa Sede stessa sono particolarmente deplorevoli. La profonda penetrazione del Vaticano da parte delle agenzie di intelligence del blocco sovietico è stata documentata in numerosi studi accademici, molti dei quali sono citati nel secondo volume della mia biografia di Giovanni Paolo II, “La Fine ed il Principio” (che è stata disponibile in un’ottima edizione italiana per due anni). Quando uomini intelligenti come il cardinal Sodano – che non è l’unico fra i suoi compatrioti a difendere la Ostpolitik – non riesce a riconoscere le numerose prove documentali di ciò che è successo in realtà negli anni Settanta fra il Vaticano e i governi comunisti dell’Europa centro-orientale, allora è lecito pensare che ci sia qualcos’altro in ballo oltre alla preoccupazione per la testimonianza storica.

     

    A mio parere, siamo di fronte a una deplorevole arroganza nazionale unita alla difesa di un modello ormai superato del ruolo della chiesa negli affari internazionali: un modello che ha funzionato in modo ragionevolmente soddisfacente al Congresso di Vienna del 1814-1815, ma che è arrivato molto vicino a causare un disastro negli anni Settanta.

     

    (Traduzione di Sarah Marion Tuggey - Questo aricolo di George Weigel biografo di Giovanni Paolo II, è stato pubblicato il 16 luglio scorso sul sito internet di First Things)