Al lavoro su una nuova teoria. Laffer, 74 anni (un giovane professore nel ritratto di Ruth Munson), ora studia gli effetti dei “cicli politici di 16 anni” sull’economia e assicura che ci sorprenderà

Addio Obama, addio tasse

Marco Valerio Lo Prete

Arthur Laffer, l’uomo della Curva che stregò Reagan, prevede un futuro radioso per gli Stati Uniti (ma non per l’Europa). Tovaglioli, numeri, politica e sesso. L’economista preferito dai liberisti vede rosa, e sulle tasse sa di avere ragione su Krugman

Londra. Arthur Laffer non ha dubbi: “Quando Dio amava il nostro mondo”, erano gli anni Ottanta del secolo scorso. “When God loved our world”, infatti, è la formula che l’economista americano utilizza ancora oggi per riferirsi a un momento preciso della storia del pianeta: quel periodo che va dal 20 gennaio 1981 al 20 gennaio 1989, quando Ronald Reagan era presidente degli Stati Uniti d’America. Allora Dio diede prova di amare il mondo, ripete Laffer col sorriso sulle labbra. Settantaquattro anni portati ottimamente, complice forse il lungo periodo d’insegnamento nell’ameno campus della Pepperdine University a Malibu, sulla costa californiana, l’ex consigliere del presidente repubblicano, quello che più di tutti avrebbe convinto Reagan a perseguire una politica di riduzione delle imposte, non si considera affatto una reliquia ambulante per i liberisti del pianeta. Né i suoi avversari ideologici – come il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman – lo considerano tale, a giudicare dall’attenzione che sono tornati a dedicargli nelle ultime settimane. A Londra infatti – dove il Foglio lo ha incontrato a margine di un seminario all’Institute of Economic Affairs e dopo una presentazione del suo ultimo libro su tasse e tabacco (vedi qui) – Laffer abbozza una teoria sui “cicli politici di 16 anni” che riguarda il futuro più prossimo. Reagan impresse uno choc di crescita alla prima economia del mondo dopo 16 anni di presidenze “disastrose”, una sequenza formata da Lyndon B. Johnson (democratico), Richard Nixon (repubblicano), Gerald Ford (repubblicano) e Jimmy Carter (democratico). Oggi, allo stesso modo, dopo altri 16 anni di politiche economiche scriteriate, attribuibili al repubblicano George W. Bush e al democratico Barack Obama, prevede Laffer, “a partire dalle elezioni presidenziali del 2015, considerato quanto sta accadendo nel Partito repubblicano, mi sento di poter dire che un altro mondo è possibile, anzi probabile”.

 

Laffer, dopo la laurea a Yale e il dottorato a Stanford all’inizio degli anni Settanta, è diventato un’icona mondiale dei supply-sider grazie a un semplice grafico disegnato fuori dalle aule universitarie e che lo ha avvicinato al mondo della politica. La “Curva di Laffer” – secondo i manuali di economia – descrive la relazione tra l’aliquota media di un’imposta (sul reddito ma non solo) e il gettito fiscale complessivo ottenuto dallo stato. Con un’aliquota dello 0 per cento, quale che sia la base imponibile, il governo ovviamente non ottiene nessun gettito fiscale; allo stesso modo, però, con un’aliquota fissata al 100 per cento, le casse dello stato rimarranno vuote. In questa seconda ipotesi, infatti, la tassazione sarebbe così alta da annichilire ogni incentivo a lavorare o consumare, se non in nero. Con il suo grafico a campana, la “curva” appunto, Laffer ha individuato quel punto che ogni imposta non dovrebbe superare, pena il fatto di diventare “proibitiva” per il contribuente e quindi non conveniente per lo stato esattore. Per lo stesso criterio, ripercorrendo a ritroso la curva e abbassando l’aliquota di un’imposta, si può ottenere più gettito fiscale. Fu questa l’intuizione che colpì Reagan, ma anche Margaret Thatcher nel Regno Unito, e che spinse i due leader conservatori ad alleggerire il fisco con l’intento di liberare gli animal spirits dei popoli anglosassoni.

 

Laffer si schermisce, ripete che la curva non la inventò lui da zero, e che una consapevolezza simile c’era perfino negli scritti di Ibn Khaldun, filosofo arabo del XIV secolo che fornì la prima spiegazione dello sviluppo stentato della sponda meridionale del Mediterraneo. Fu lui però, durante una cena nel 1974 con Dick Cheney e Donald Rumsfeld, allora collaboratori del presidente repubblicano Ford, a disegnare la curva su un tovagliolo di un ristorante, nel tentativo di spiegarsi, e a renderla definitivamente popolare. Nel 1978, sul Wall Street Journal, la curva prese il suo nome grazie alla ricostruzione di un altro commensale di quella sera, Jude Wanniski, editorialista del quotidiano finanziario che si era perfino portato a casa il tovagliolo. Come arrivò poi a Reagan? “Non ho problemi ad ammettere che a volte il caso ci rende dei privilegiati – dice – Il mio padrino era un amico fraterno del candidato repubblicano Reagan, e così lo conobbi”. L’ex attore californiano rimase stregato, perciò Laffer per otto anni fece parte della squadra dei consiglieri economici del presidente responsabile di un periodo di crescita straordinaria della prima economia del pianeta.

 

Quella fase oggi sembra lontana, gli Stati Uniti stanno uscendo dalla più grave recessione dal 1929 a oggi. “Era da anni che non ero così ottimista – ribatte Laffer – In America si sta per realizzare una rivoluzione pro crescita”. Un cambiamento politico che, secondo l’economista, poggia su un dato di fatto incontestabile: “A partire dagli anni 60, senza soluzione di continuità, gli stati americani con la tassazione più bassa sul reddito sono cresciuti di più degli stati con la tassazione più alta. Nel periodo che va dal 2003 al 2013, per esempio, i nove stati americani senza imposte statali su reddito o investimenti – Alaska, Florida, Nevada, New Hampshire, South Dakota, Tennessee, Texas, Washington e Wyoming – hanno visto aumentare in media il numero di posti di lavoro del 9,9 per cento ogni anno. I nove stati con la tassazione locale più alta sul reddito – California, Hawaii, Kentucky, Maryland, Minnesota, New Jersey, New York, Oregon e Vermont – hanno accresciuto i posti di lavoro a un tasso pari soltanto al 4,3 per cento. Non è questione di destra o sinistra, sono le regole dell’economia”.

 

Quella che Laffer chiama “rivoluzione della redistribuzione”, nell’ultimo quindicennio, sarebbe alla base delle difficoltà economiche incontrate dal suo paese. Scusi professore, intanto però sul New York Times il premio Nobel Paul Krugman le ha dato del “ciarlatano” per quanto accaduto negli ultimi mesi in uno stato come il Kansas. Krugman sostiene che il governatore del Kansas, Sam Brownback, dando ascolto ai suoi consigli, ha approvato il più robusto taglio di tasse sul reddito che si vedesse da anni, salvo poi accorgersi che il pil non è decollato e che il gettito fiscale latita. “Sinceramente, mi sembra che Krugman sia ossessionato dalla mia persona. Non è il primo articolo che mi dedica. In passato, addirittura, mi elogiò. Oggi mi attacca ferocemente. La sua, ripeto, è un’ossessione. Nel merito, ritengo che il governatore Brownback abbia fatto la scelta giusta. Lui stesso aveva previsto che il gettito fiscale avrebbe impiegato qualche anno per tornare ai livelli di prima, e comunque il Kansas non è in deficit come sembra emergere dagli scritti di Krugman. E’ sbagliato giudicare gli effetti di una scelta simile dopo sei mesi, in una realtà particolare come il Kansas, e mentre tutti gli stati americani affrontano una caduta del gettito in ragione di scelte prese dalla Casa Bianca che hanno spinto i contribuenti ad anticipare i pagamenti allo scorso anno. E’ come se in un deserto, dopo una pioggia improvvisa di quelle che possono capitare una volta l’anno, ci attendessimo la fine della siccità. Krugman e gli altri, piuttosto, provino a contestare i dati decennali sul fisco che ho raccolto su un campione molto più rappresentativo”.

 

Laffer dunque non demorde, dice che “già a novembre, con le elezioni di metà mandato del Senato, il paese inizierà a cambiare”. Da adesso fino alla campagna presidenziale “la battaglia campale sarà sulle tasse e sullo stimolo fiscale alla domanda”. Per questo Laffer è tra gli animatori più attivi dell’American legislative exchange council (Alec), un gruppo di parlamentari ed economisti di tutto il paese che si batte a livello locale per promuovere “governo leggero, libero mercato e federalismo”.

 

Intanto però, sotto la presidenza Obama, gli Stati Uniti sono tra le economie occidentali che con più sicurezza hanno imboccato il sentiero della ripresa: “Certo, se il paragone è con un mondo occidentale che procede al passo della lumaca… Ma oggi, mentre si parla del tasso di disoccupazione che scende, ha visto a che livello è caduto il tasso di occupazione negli Stati Uniti?”. Da 66,5 occupati ogni 100 americani in età lavorativa prima della crisi, si è passati a 62,8 secondo l’ultima rilevazione di giugno, il livello più basso da 35 anni a questa parte (in Italia il tasso d’occupazione è poco sopra il 55 per cento). “Non solo: l’andamento del pil pro capite è bel al di sotto del livello potenziale”.

 

“A questo si aggiunga che è ormai chiaro a tutti il funzionamento delle politiche di stimolo fiscale. Semplifichiamo al massimo, prendiamo un mondo in cui esistono soltanto l’individuo A e l’individuo B. Se B prende un sussidio, chi lo paga? Ovviamente A. La spesa pubblica è tassazione, punto e basta. Così a uno stimolo positivo per B, corrisponde uno stimolo negativo per A che vede intaccati i suoi redditi o i suoi risparmi”. I repubblicani però sembrano ancora molto divisi tra loro e in difficoltà per la presenza di una pattuglia di intransigenti come i Tea Party che chiedono meno tasse e meno spesa pubblica a tutti i costi: “In un sistema bipartitico come il nostro, è normale che sia così. All’interno di ogni partito alberga tanta diversità, ma io direi che il dibattito tra i più ‘moderati’ in stile Mitch McConnell e i più ‘intransigenti’ à la Paul Ryan è salutare. Anzi bellissimo. Io perlomeno adoro assistervi”. L’ottimismo di Laffer, però, si fonda soprattutto su quella che giudica una pessima prova di governo da parte di Obama: “Invece che affliggerci inutilmente, dovremmo ricordare due cose. In primo luogo  ci vollero Jimmy Carter e il suo fallimento per creare Reagan. Se Reagan fosse stato eletto prima, per esempio nel 1976, la sua parabola non sarebbe stata la stessa. Inoltre nell’immediato Dopoguerra l’aliquota marginale massima sul reddito negli Stati Uniti era al 92,5 per cento. Kennedy la ridusse al 70 per cento. Reagan la portò al 28 per cento. Il democratico Bill Clinton ridusse più di tutti i suoi predecessori la spesa pubblica in proporzione al pil. Quella dei liberali, nonostante i contraccolpi degli ultimi 15 anni, non è la storia di una sconfitta. Nel lungo periodo, facciamo cinque passi avanti e due indietro”.

 

Che idea si è fatto, invece, delle condizioni economiche dell’Europa? Laffer, che premette di non aver seguito nei dettagli il dibattito e i dati del Vecchio continente, concentrato com’è su quanto accade negli Stati Uniti, avanza alcune considerazioni generali: “Con i livelli di spesa pubblica che avete, decisamente elevati come percentuale del pil, per esempio, sono colpito da tutte le chiacchiere che leggo sull’austerity fiscale. Quello che oggi chiamate ‘rigore’ vent’anni fa si sarebbe chiamata ‘dissolutezza’!”. Poi un suggerimento: “Occorre considerare che le politiche di spesa hanno un potere di incidere sulla realtà economica che è diciamo pari a 1, visto che modificarle in senso profondo, in maniera che incidano, richiede almeno un decennio. Mentre modificare la tassazione in senso sviluppista ha un potere più immediato, pari a 10. Meglio o peggio, a seconda di come la si usa, può fare soltanto la politica monetaria che sulla stessa scala ha un potere pari a 100”. Dettò ciò, “ritengo che il problema di voi europei non sia soltanto e in primo luogo economico. Osservando infatti i vostri tassi di natalità, così come quelli del Giappone, mi viene da chiedere: ma cosa pensate oggi voi europei del sesso? Ricordate a cosa servono i seni delle donne?! – scherza Laffer – O davvero il sesso si è ridotto soltanto a un gioco per voi? Probabile, ma in questo modo mi pare stiate percorrendo una via pericolosa che porta all’estinzione. Rispetto a questo, però, la politica economica può fare ben poco”.

 

Non tutta l’Europa, comunque, è sulla stessa barca. Laffer, di passaggio a Londra, ha incontrato riservatamente alcuni esponenti del governo conservatore di David Cameron. Di cosa hanno parlato? Di tasse, ovviamente. “Nel 2009 i laburisti inglesi hanno alzato al 50 per cento l’aliquota massima per i redditi che superavano le 150 mila sterline. E questo dopo che dagli anni 70, grazie alle scelte di Lady Thatcher, non c’erano stati inasprimenti fiscali. Gli stessi laburisti, però, hanno minimizzato gli effetti positivi che ci sarebbero stati per il gettito raccolto, sottolineando piuttosto l’aspetto punitivo del nuovo regime fiscale rispetto ai più abbienti. Hanno così dimostrato che nel mondo contemporaneo la tassazione rischia sempre più di essere trattata come un’arma politica invece che come una leva quanto più efficace possibile della politica economica. Tre anni dopo, i conservatori hanno abbassato quell’aliquota massima al 45 per cento. Risultato, nel 2013-’14, primo anno di applicazione della nuova aliquota, il gettito fiscale ottenuto dallo stato da parte degli inglesi più ricchi è passato da 41,6 miliardi di sterline a 49,9 miliardi. Vuol dire che, prima dell’inversione di rotta decisa dai conservatori, la tassazione sul reddito si era spostata nella parte ‘proibitiva’ della curva, disincentivando la produzione di ricchezza e riducendo il gettito”. Meno tasse a partire da quelle sui più ricchi; è sicuro che il messaggio possa essere così popolare in Europa? “Se lo stato tassa le persone che lavorano e sussidia le persone che non lavorano… E’ necessario che aggiunga la terza frase? Lo faccio: cresceranno i disoccupati”, dice Laffer. Che poi ci tiene a concludere l’intervista con una nota positiva: “Stiamo per vivere una fase storica eccitante, si fidi”.

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