Théodore Chassériau, “Il califfo di Costantinopoli Ali Ben Hamet seguito dalla sua scorta” (Reggia di Versailles)

Un califfo a Roma

Nicoletta Tiliacos

L’islam presto sarà qui: la promessa-minaccia di al Baghdadi. Che però, se vedesse com’è ridotta la città, potrebbe ripensarci. Non si sono registrate, almeno per ora, significative reazioni dei romani

Distratti dai Mondiali, dal minacciato completamento della pedonalizzazione dei Fori imperiali (che, come gli esami della commedia di Eduardo, non finisce mai), dalla spazzatura tracimante dai cassonetti, dai blocchi un giorno sì e uno no delle linee della metropolitana e da altre tipiche manifestazioni di ordinaria romanità, gli abitanti dell’Urbe non hanno probabilmente avuto né tempo né fantasia di considerare con la dovuta attenzione qualcosa che pure, in apparenza, li riguarda molto da vicino. Ci riferiamo alla sconcertante affermazione del capo dello stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis, già Isil), proclamato a fine giugno in un vasto territorio tra la siriana Aleppo e la provincia irachena di Diyala. Nella sua predica dalla moschea di Mosul e diffusa in tutto il mondo, nel venerdì 4 luglio che ha dato l’avvio al Ramadan, Abu Bakr al Baghdadi al Qurashi al Husseini – ora autonominatosi califfo Ibrahim – ha chiamato i musulmani tutti a unirsi a lui: se lo faranno, ha promesso, l’islam arriverà fino a Roma e dominerà l’orbe terracqueo.

 

Non si sono registrate, almeno per ora, significative reazioni dei romani. Notoriamente avvezzi alle invasioni di visigoti, lanzichenecchi, pellegrini e affini, e sostanzialmente scettici di fronte a ogni annuncio di portata epocale. “Presto il califfato arriverà a Roma”, nella percezione del cittadino romano equivale a “presto sarà aperta la nuova tratta C della metropolitana”, o anche a “presto sarà affrontato il nodo dell’occupazione illegale del Teatro Valle”. Sì, come no… E’ che i romani di oggi non sono tanto diversi da quelli dell’inizio degli anni Cinquanta e di sempre. Caratterizzati, come ha scritto Edgardo Bartoli nel suo “La civiltà del malumore. Roma e l’eterno conformismo italiano” (Elliot), “dal disinteresse per tutto ciò che è lontano, dall’ironia per tutto ciò che è vicino, dall’indifferenza per tutto ciò che è astratto”. Finché non sarà almeno arrivato a ridosso del Grande raccordo anulare, insomma, del califfo conquistatore il romano non si curerà affatto. E forse, azzardiamo, nemmeno allora susciterà qualcosa di più di un sonnacchioso: “Anvedi, er califfo…”. Seguito in un batter d’occhio dal prevedibile: “Er califfo? Ma che tte frega…”.

 

Prendiamo spunto, per quest’ultima considerazione, da un felice libretto appena pubblicato da Filippo La Porta per Laterza, intitolato “Roma è una bugia”. Tra una divagazione e l’altra, mentre costruisce la propria personale mappa sentimentale della città dove è nato e vive, La Porta constata che “i romani hanno nel loro repertorio antropologico una risorsa preziosa. C’è un’espressione romana che prediligo e che confligge con il cliché del cinismo e dell’indifferenza incarognita dei miei concittadini. Si tratta di un’espressione lievemente obsoleta: ‘Anvedi’, che idealmente si contrappone al pure diffuso ‘Che tte frega!’”. E’ l’“anvedi” di Ninetto Davoli nei film di Pasolini. Stupore sorgivo, incantamento a bocca aperta, subito pronto a stemperarsi nell’opposto e simmetrico invito, rivolto quasi più a se stessi che agli altri, a non curarsi della stessa cosa che fin lì sembrava oggetto della più ingenua meraviglia. A volte, anzi, il “che tte frega” è soggetto alla variazione “più greve, vernacolare” di “’sti cazzi”, scrive La Porta. Espressione che “denota una indifferenza ‘critica’, imparentata con la filosofia stoica: indifferenza non verso le sventure dei disgraziati ma verso le sventure di chi sta in alto” e soprattutto “verso le vanterie di qualcuno che si sente il centro del mondo”. E’ questa eterna Roma “grandiosamente impoetica” (copyright ancora Edgardo Bartoli) che ci fa dire sommessamente: califfo avvisato, mezzo salvato.

 

All’ombra dei Sette colli, nessun appuntamento con la storia e con il destino è possibile per come lo si immagina. Nemmeno per come lo potrebbe immaginare un volenteroso califfo – perdipiù autoproclamato – in marcia per la conquista del mondo: perché altrimenti, e anche qui citiamo La Porta, gli appuntamenti a Roma si danno sempre “verso” una certa ora? Perché “verso le cinque” e non alle cinque? Anche l’ora delle decisioni irrevocabili di mussoliniana memoria soggiaceva, probabilmente, alla stessa fatale approssimazione, e s’è visto come è andata a finire.

 

Comunque, dopo certe disgraziate performance del sindaco in bicicletta Ignazio Marino, perfino l’avvento di un califfo abbaside a cavallo potrebbe non apparire ai romani il peggiore dei destini. Almeno all’Esquilino, a Campo de’ Fiori, a Trastevere, al Pigneto e ovunque impazzi la festa rumorosa dell’estate romana, accompagnata dall’ameno fracasso delle bottiglie rotte per sfregio e dai bonghi senza pietà per chi pretenderebbe di dormire alle tre di notte, quell’idea che nel mondo promesso da Abu Bakr al Baghdadi al Qurashi al Husseini sia proibito bere alcolici ed eseguire musica strumentale non sembra affatto malvagia. Un fogliante di cui taceremo l’identità, di stanza dalle parti della vessata piazza Vittorio Emanuele – nonché indefesso contributor del blog intitolato “Roma fa schifo”, nel quale ogni giorno si riversano foto di denuncia e lamentele dalla città umiliata e offesa – si è spinto fino a commentare favorevolmente l’annuncio del califfo dalla moschea di Mosul: “Califfato? Magari. Qui all’Esquilino speriamo in un’applicazione severa della sharia”.

 

Prima di approfondire ulteriormente le possibili reazioni dei romani, conviene tuttavia concentrarsi sulla vera domanda: è proprio sicuro, il califfo Ibrahim, che gli convenga imbarcarsi nella conquista di Roma? Ha riflettuto bene? Si è informato a dovere? Non teme che la città “Pantheon di idee defunte”, per usare la definizione del romano d’adozione e di affetti Raffaele La Capria, non faccia eccezioni nemmeno per lui, neocaliffo di Baghdad, tanto da costringerlo prima o poi ad ammettere, con Ennio Flaiano, che “vivere a Roma è un modo di perdere la vita”, per non parlare della faccia? Non vorremmo, insomma, che quel pur energico personaggio avesse con troppa leggerezza chiamato in causa Roma e la sua improcrastinabile conquista. Per questo, siamo pronti a consigliargli qualche precauzione e perfino qualche utile lettura. Non ultima, quella dei giornali locali: “Giornata da incubo per l’incidente sulla linea A: assalto ai bus, circolazione in tilt. Forze dell’ordine a Termini per calmare i passeggeri e la procura apre un’inchiesta”; “Roma fa schifo e un quarto di Ama sta a casa. Duemila dipendenti (su ottomila) dell’azienda capitolina assenti dal posto di lavoro per assistere familiari con la 104. E mentre Marino promette controlli sull’anomalia, le strade della capitale continuano a vomitare rifiuti”. Due titoli a caso, pescati nella cronaca degli ultimi sette giorni tra siti e pagine di quotidiani. Con qualche variazione – nelle circostanze ma non nella sostanza – sono gli stessi da talmente tanto tempo che l’effetto, per il romano navigato, è quello di avere sempre tra le mani lo stesso giornale, da decenni.
Ma più ancora delle ripetitive cronache cittadine, un ipotetico califfo a Roma dovrebbe, per avere una vaga di idea di quel che l’aspetta, leggersi almeno “Un marziano a Roma” di Ennio Flaiano. In quel racconto del 1954, poi trasformato in pièce teatrale, lo scrittore pescarese mise in scena l’immunità capitolina al grandioso importato, alle illusioni di palingenesi, a ogni promessa di cambiamento salvifico.

 

Anche il marziano Kunt, immaginato da Flaiano mentre scende in una mattina di ottobre con la sua astronave sul prato del galoppatoio di Villa Borghese, dapprima è accolto con entusiasmo indescrivibile, poi diventa rapidamente l’ennesima e patetica macchietta nel teatrino mondano e intellettuale della città. All’inizio “tutta la popolazione della periferia si è riversata al centro della città e ostacola ogni traffico. Debbo dire che la gioia, la curiosità è mista in tutti ad una speranza che poteva sembrare assurda ieri e che di ora in ora si va invece facendo più viva. La speranza ‘che tutto cambierà’. Roma ha preso subito l’aspetto sbracato e casalingo delle grandi occasioni”. Il marziano è atterrato il 12 ottobre ma già il 3 novembre “la vita a Roma è tornata quasi normale. La Questura ha ristabilito la vecchia ora per la chiusura dei bar, e vasti rastrellamenti vengono operati nelle ore notturne, nei parchi pubblici, che erano ormai diventati il ritrovo di tutte le coppie. Sono in preparazione nove films sul marziano, uno dei quali con l’attore Totò”. Passano le settimane, il marziano viene ricevuto dal presidente della Repubblica e dal Papa: “Ne dà la notizia l’Osservatore Romano, senza tuttavia pubblicare fotografie, nella sua rubrica ‘Nostre informazioni’.

 

In questa rubrica, com’è noto, vengono segnati per ordine di importanza i nomi delle persone che il Santo Padre ha acconsentito a ricevere in udienza privata. Il marziano è tra gli ultimi e così nominato: il signor Kunt, di Marte”. Ma intanto qualcuno ha già cominciato a notare che il marziano non si perde né una festa, né un vernissage né un cocktail. Accetta addirittura di far parte della giuria che deve eleggere Miss Vie Nuove, il settimanale del Pci “fondato da Luigi Longo”. Siamo al 6 gennaio e il narratore si aggira a via Veneto, la notte. A un tavolo appartato del caffè Rosati, prossimo alla chiusura, vede, solo, il re egiziano in esilio, Faruk. A un altro tavolo c’è il marziano Kunt, “assieme a Mino Guerrini, Talarico e Accolti-Gil”. Basta, si fa davvero ora di chiudere e il marziano, svogliatamente, si avvia verso l’albergo Excelsior. Ma poi “si è fermato, ed è tornato sui suoi passi. Non aveva voglia di andare a dormire, lo capivo bene. La noia della notte, la paura del letto, l’orrore di una stanza nemica che respinge lo tenevano ora inchiodato davanti ad una vetrina di giocattoli, ora davanti ad una vetrina di fiori. Sembra che su Marte non crescano fiori così belli come da noi… Ha deciso infine di attraversare la strada e, a questo punto, nel grigio silenzio, qualcuno ha gridato forte: ‘A marziano!…’. Il marziano si è subito voltato ma ancora una volta il silenzio è stato rotto e stavolta da un suono lungo, straziante, plebeo. Il marziano è rimasto fermo e scrutava nel buio. Ma non c’era nessuno o, meglio, non si vedeva nessuno. Si è mosso per riprendere la sua passeggiata; un suono ancora più forte, multiplo, fragoroso, lo ha inchiodato sull’asfalto: la notte sembrava squarciata da un concerto di diavoli. ‘Mascalzoni!’ ha gridato il marziano”.

 

Il grande stomaco di Roma – stomaco di ferro – ha digerito anche il marziano Kunt, preso allegramente a pernacchie. Nella più monumentale delle città, nessun monumento resiste più di tanto, ognuno è a rischio ruzzolone e il califfo Ibrahim farebbe bene a tenerne conto. Perfino quando l’attitudine derisoria del romano sembra neutralizzata dall’ammirazione, c’è sempre quell’idea di fondo: “Ma chi sei? Nun sei nessuno”. Filippo La Porta ricorda nel suo libro di quando vide l’idolatrato Jimi Hendrix esibirsi in camicia fucsia al teatro Brancaccio di via Merulana, nel maggio del 1968. Pure lì, dopo le acclamazioni generali, ci fu lo spettatore che gridò nel silenzio: “A Jimi, facce ‘Foxy Lady’!”, provocando un moto di dispetto del musicista. Anche quando non è irriguardoso, il romano tende alla confidenza non autorizzata, che è pur sempre una forma – attutita e bonaria – di irriverenza.

 

Dovrebbe insomma rifletterci a lungo, prima di impelagarsi nell’impresa romana, il califfo Ibrahim, alias Abu Bakr al Baghdadi al Qurashi al Husseini. Dopo che ha sostituito Osama bin Laden nel ruolo di nemico pubblico internazionale numero uno, non può nemmeno agevolmente arrivare sotto mentite spoglie a Fiumicino, per ingaggiare risse per un taxi nella solita fila infinita ed essere lasciato, per esempio, in piena movida alcolica a San Lorenzo o a piazza Trilussa. Così, tanto per capire che aria tira, potrebbe addirittura azzardare un giretto a viale Parioli o alla collina Fleming. Magari ha già saputo per vie traverse che da quelle parti girano bande di ragazzacci che ai semafori rubano i Rolex e altri orologi di valore, ed è in vista del futuro insediamento del califfato a Roma che dalla manica destra del suo abito nero non spunta che un modesto orologio cinese Shenzhen Jingri, atto a scoraggiare qualsiasi scippatore (Paola Peduzzi, sul Foglio del 9 luglio, ha raccontato che quell’orologio dall’apparenza sontuosa, sul quale si era molto favoleggiato, costa solo venticinque dollari sul sito Alibaba).

 

Ma non si illuda, il califfo, che basti un orologio pauperista, per affrontare Roma. Del grande califfo Harun al Rashid, che regnò dal 786 all’809 a Baghdad e segnò il momento di massimo splendore della dinastia abbaside, le “Mille e una notte” narrano che amava girare in incognito tra i sudditi, per saggiarne gli umori e per smascherare nemici (in una delle storie, il califfo finisce per essere ingaggiato da un gruppo di congiurati che lo vorrebbero uccidere). Nella Roma di fine Cinquecento, l’espediente del travestimento si dice lo usasse da Papa Sisto V, che probabilmente non aveva letto le “Mille e una notte” ma che la tradizione popolare vuole in abito da eremita, mentre si aggira nel Colosseo, tra bivacchi di briganti di cui cercava di conoscere in anticipo i piani. Nella Roma odierna, il califfo Ibrahim non riuscirebbe facilmente a chiacchierare con nessuno, men che mai travestendosi da eremita o da mendicante. Il romano medio è sempre più ingrugnato e tende a non dare molta confidenza a nessuno. Se gli chiedi che cosa vorrebbe, risponde incattivito, come l’idraulico chiamato da Carlo Levi, subito dopo la guerra, per un modesto guasto al bagno: “A dotto’, qui bisogna sfascia’ tutto!”. Ma il romano, come l’idraulico, sa che alla fine non si sfascia quasi nulla. Ci si mette una toppa, al massimo, e si va avanti.

 

Prenda tempo e non si sbilanci troppo, il califfo Ibrahim. Consideri quello che Flaiano (nel “Diario degli errori”, Adelphi), annotava sotto la voce “1968”, quasi mezzo secolo fa: “I porti invecchiano. Venezia è sempre da salvare. L’Inps assediata. Gli statali in sciopero. L’edilizia in crisi. Gli ortofrutticoli danneggiati dal Mec. Il turismo regredisce. Le acque sono inquinate. I treni ritardano. La circolazione in crisi. Lo sciopero dei benzinai. Gli studenti preparano la protesta. Rivolta nelle carceri. La riforma burocratica ferma. Napoli paralizzata. Sciopero dei netturbini. La crisi del latte. La pornografia in crisi. Il divorzio è in crisi. Crisi dell’istituto familiare. I giovani svedesi non si sposano più. La torre di Pisa ancora in pericolo. Il porto di Genova paralizzato. I telefoni non funzionano. Posta che non viene distribuita. La crisi dei partiti. La crisi delle correnti dei partiti. Lo Stato arteriosclerotico. Il Mezzogiorno in crisi. Le regioni in crisi. Il comune di Roma aumenta il disavanzo. Ferma la metropolitana a Roma. Duello di artiglierie a Suez. I colloqui di Parigi stagnano. I cinesi preparano una sorpresa? I negri preparano la rivolta? Gli arabi preparano la guerra? I russi nel Mediterraneo. La sinistra in crisi. La destra in crisi. Il centro-sinistra in crisi. Fine del parlamentarismo? Il freddo ritorna”. A parte Suez e De Gaulle, la situazione è identica.
Ci pensi bene, califfo Ibrahim.

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