Volgono di nuovo al brutto i rapporti geoeconomici tra Cina e Stati Uniti

Domenico Lombardi

L’esito del vertice bilaterale Cina-Stati Uniti, tenutosi la scorsa settimana a Pechino, ha confermato alcune attese e insieme rivelato altre novità. Il segretario al Tesoro, Jack Lew, porta a casa l’annuncio di un trattato bilaterale per la liberalizzazione degli investimenti.

L’esito del vertice bilaterale Cina-Stati Uniti, tenutosi la scorsa settimana a Pechino, ha confermato alcune attese e insieme rivelato altre novità. Il segretario al Tesoro, Jack Lew, porta a casa l’annuncio di un trattato bilaterale per la liberalizzazione degli investimenti, i cui negoziati partiranno all’inizio del prossimo anno. Tuttavia il nodo fondamentale nei rapporti economici bilaterali rimane: Washington apprezza il documento economico quinquennale presentato dalla nuova leadership al plenum del partito lo scorso autunno, ma auspica che l’attuazione avvenga secondo una tempistica più serrata, soprattutto per le riforme previste nel settore bancario e la liberalizzazione delle transazioni internazionali in conto capitale.

 

In un certo senso che l’incontro sia avvenuto è già una notizia. Mai il vertice semestrale era stato preceduto da una serie di eventi infelici come l’acuirsi delle tensioni nel mar della Cina con la decisione unilaterale di Pechino di attribuirsi uno spazio di interdizione navale; i ripetuti attacchi cibernetici a server di agenzie governative americane che avevano indotto le autorità di Washington ad accusare formalmente cinque funzionari collegati ai servizi di informazione di Pechino. E, ancora, negli Stati Uniti, la decisione reiterata del Congresso americano di rinviare sine die il voto sul pacchetto di riforma della governance del Fondo monetario internazionale che avrebbe dato alla Cina lo status di terzo grande azionista nell’instituzione multilaterale. Infine, il rapporto del Tesoro presentato al Congresso lo scorso aprile che puntava il dito sul consistente deprezzamento della valuta cinese nei mesi precedenti. A conferma del clima eccezionalmente teso, le autorità cinesi avevano congelato i preparativi a meno di due mesi dall’incontro quando il segretario al Tesoro Lew si è recato di persona a Pechino per mettere acqua sul fuoco lo scorso maggio.

 

Proprio questa recente dinamica racchiude il senso dell’evoluzione della natura del tavolo bilaterale con Pechino. Introdotto durante la presidenza di George W. Bush nel 2006, il vertice bilaterale doveva rappresentare uno dei pilastri nell’ambito di una raffinata strategia che prevedeva molteplici punti di pressione, a livello bilaterale, multilaterale e intergovernativo. Il contrappeso multilaterale era rappresentato da un potenziamento, ottenuto nel 2007, del quadro regolamentare della sorveglianza macroeconomica del Fmi centrato sull’inasprimento di poteri sanzionatori verso quei paesi membri la cui valuta risultasse sottovalutata rispetto ai fondamentali. Il contrappeso intergovernativo veniva introdotto nel 2008 con il primo vertice fra i capi di stato e di governo del G20 e la auto attribuzione, nel vertice di Pittsburgh dell’anno successivo, del ruolo di principale foro per le cooperazione economica internazionale. L’obiettivo era di creare una piattaforma intergovernativa per far convergere le politiche economiche di Pechino sulle priorità dell’agenda bilaterale sino-americana così come vista da Washington.

 

In ordine cronologico, il primo pilastro a essere caduto è stato quello multilaterale. Dopo aver finalmente calendarizzato una riunione del consiglio di amministrazione nel settembre del 2008 per passare in rassegna le politiche valutarie cinesi nell’ambito del nuovo quadro regolamentare, il crollo di Lehman Brothers nei giorni precedenti la convocazione della riunione induce il Tesoro americano a un cambio repentino di rotta. Per non alienare un paese che poteva contribuire alla successiva stabilizzazione dell’economia mondiale, quella riunione fu rinviata e l’apparato regolamentare sotto i cui auspici doveva avvenire definitivamente annacquato. Il secondo pilastro a cadere è stato il G20 come foro intergovernativo per la cooperazione economica rafforzata. Nell’ottobre 2010, l’allora segretario al Tesoro, Tim Geithner, proponeva una piattaforma di coordinamento delle politiche economiche per il ribilanciamento degli squilibri macroeconomici basata su delle metriche quantitative che Pechino riuscì ad affondare definitivamente al summit di Seul il mese successivo. Rimane, infine, il pilastro bilaterale. Mentre Washington appare ancora prigioniera di uno schema psicologico per il quale Pechino avrebbe interesse a costruire una relazione esclusiva con la superpotenza mondiale, le autorità cinesi stanno portando avanti una nuova generazione di accordi internazionali che prevedono, oltre al tradizionale accesso ai rispettivi mercati nazionali, relazioni privilegiate in valuta con Banche centrali e trattati per la protezione e la liberalizzazione degli investimenti.

 

A oggi, la Banca centrale cinese vanta, unica al mondo, almeno 23 relazioni bilaterali in valuta (swap) per un valore complessivo di circa mezzo miliardo di dollari. Nelle settimane scorse, le autorità cinesi hanno messo a segno altri risultati importanti che consentiranno di espandere l’utilizzo della valuta cinese sui mercati mondiali. In Europa, sono state designate due banche, la China Construction Bank e la Bank of China, per rifornire la piazza europea di renmimbi, attraverso Londra e Francoforte: per il tramite di questi intermediari, sarà possibile alla clientela europea approvvigionarsi direttamente dalla Banca centrale grazie allo speciale rapporto di corrispondenza fra gli istituti in parola. Certo, il renminbi non è il dollaro né può realisticamente aspirare a esserlo: ma nel 2001 era la 35esima valuta in ordine di importanza a essere scambiata sul mercato dei cambi e nel 2013 è diventata la nona. Altri indicatori ne confermano la rapida ascesa come valuta internazionale.

 

Per quanto riguarda gli accordi per la liberalizzazione (e la protezione) degli investimenti bilaterali, Pechino ha già avviato i negoziati con altre, importanti aree economiche. La Ue è in vantaggio rispetto agli Stati Uniti di almeno un anno: l’inizio dei negoziati è già avvenuto lo scorso gennaio, in seguito all’annuncio dato all’ultimo summit sino-europeo dello scorso anno.

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