Il declino di Livorno è iniziato molto prima della crisi economica nel resto del paese: l’economia cittadina è stata gradualmente smantellata, il porto ha ridotto la sua attività commerciale

Livorno la matta

Cristina Giudici

Conservatrice e libertaria. Bigotta e libertina. Immobile, statica, benché sempre indignata. Orgogliosa della sua gioiosa surrealtà, devota all’accidia, colta e impoverita, così la culla del Pci s’è consegnata a Grillo (senza crederci).

Conservatrice e libertaria. Bigotta e libertina. Immobile, statica, benché sempre indignata. Beffarda e surreale. Decadente e struggente. Con quel guizzo di follia, che si intravede sia nelle espressioni enigmatiche dei suoi cittadini sia nelle locuzioni iperboliche del loro irresistibile e caustico vernacolo. Sospesa nel tempo e dal tempo. Come se ormai la storia, che qui si è data molto da fare, si fosse dimenticata di questa città portuale, dove nacquero il Partito comunista italiano e il gerarca fascista Costanzo Ciano. O come se fosse stata lei, Livorno, una delle prime città ad avere un tratto di linea ferroviaria, la Leopolda, a ignorare il fluire degli eventi che accadevano oltre i confini del Lungomai – così i livornesi chiamano l’incantevole tratto di costa che lambisce la Terrazza Mascagni – per essere lasciata in pace e poter cristallizzarsi a proprio piacimento. Lasciandosi avvolgere da un compiaciuto declino, molto prima che il declino arrivasse nel resto del paese. E’ in questo contesto, forse, che va inserita la vittoria pentastellata, dopo settant’anni di dominio incontrastato di comunisti e postcomunisti, alle elezioni comunali, l’8 giugno scorso. In una cittadina dove Luigi Comencini nel 1960 girò una commedia drammatica sull’armistizio, l’8 settembre del 1943, con Alberto Sordi, che si intitolava “Tutti a casa”.

 

I primi passi della giunta pentastellata di Livorno, formata la settimana scorsa, a un mese dalla vittoria elettorale, sono stati incerti. E i labronici hanno assistito con gusto per il paradosso alle prime mosse false del sindaco grillino, Filippo Nogarin. L’ingegnere aerospaziale di Castiglioncello, cortese e un po’ doroteo, pare, che però al Foglio ha detto con aria di sfida: “Dicono di me che sono un improvviso? (improvvisato, ndr). Se vogliono farmi la guerra mi trovano qui, in municipio, ma sarò io a dar loro scacco”. Il suo esordio, però, non è stato brillante. Prima ha nominato un assessore all’Urbanistica, Alessandro Aurigi, architetto, che il quotidiano il Tirreno ha messo subito in croce, dopo aver scoperto che aveva lavorato nello stesso studio del sindaco. Poi ha scelto un altro assessore, alla Mobilità e al commercio, Simona Corradini, che è rimasta in sella solo per 24 ore perché era stata candidata da un’altra lista elettorale alle elezioni amministrative dell’8 giugno, e quindi non poteva entrare nella giunta. Infine quella esilarante prima conferenza stampa – una beffa del Pd, anzi un piccolo complotto secondo Nogarin – in cui un popolare personaggio cittadino borderline, come ce ne sono tanti a Livorno, Maurizio Donati, cappello da cowboy, si è imbucato in comune, si è seduto accanto al sindaco, ha preso appunti, e si è autonominato assessore alla Stazione: luogo preferito delle sue giornate sprecate. E così ci è voluto un mese, per riuscire a formare la giunta. Esaminati centinaia di curriculum, come chiedeva il M5s, il risultato è stato quello di creare una squadra con solo due attivisti grillini, o grullini come li chiamano i loro avversari: il sindaco-ingegnere Filippo Nogarin appunto, e il vicesindaco, musicista e docente, Stella Sorgente. Gli altri assessori provengono da altri mondi (fra cui due di area Pd): università, cinematografia, avvocatura, ambientalismo. C’è persino un filosofo del gusto, Nicola Perullo, docente di Estetica, con delega al Turismo: quel turismo di cui Livorno ha bisogno come il mare, per cominciare a contrastare il declino.

 

Un declino iniziato molto prima della crisi economica nel resto del paese, dopo che l’economia cittadina, sovvenzionata e statalista, è stata gradualmente smantellata, mentre il settore metalmeccanico ha contratto drasticamente la sua produzione industriale. Un declino iniziato molto prima, perché qui il porto ha ridotto la sua attività commerciale, portando le sue aziende – un’aristocrazia fino a oggi intoccabile – a farsi la guerra, invece di creare sinergie per combattere la concorrenza degli altri porti, più attrezzati da un punto di vista strutturale. E non si sono messi d’accordo neanche per sfruttare al meglio il business delle crociere, per via della mancanza di spazi sulle banchine, date in concessione per le attività commerciali. O almeno questa è la storia che raccontano tutti, cittadini e militanti del Pd, che hanno votato il M5s; scrittori, analisti di passaggio e di passeggio sul Lungomai, dove si coglie meglio l’essenza della livornesità. Perché qui fino all’8 giugno vigeva la sharia: la religione del partito, che faceva coincidere leggi, istituzioni, uomini al comando. “Finché ci si sentiva tutti protetti, sotto la campana di cristallo del partito, nessuno si lamentava, ma poi chi è rimasto ai margini, escluso da ogni protezione sociale ed economica, non voleva più vedere quelle facce, quei volti sempre uguali, quei funzionari noti e stranoti che, per una patologica coazione a ripetere, amministravano senza mai cambiare nulla”, spiega l’ex assessore ai Servizi sociali, Alfio Baldi, renziano della prima ora. “Quando i militanti del Pd hanno votato alle primarie, Matteo Renzi ha perso, ma poi, quando è stato votato dai cittadini, il premier ha preso la maggioranza. Era palese: i livornesi chiedevano un cambiamento”, aggiunge lui, membro di una corrente di minoranza così minoritaria – in una città baluardo della sinistra, i renziani sono visti ancora come alieni – da non riuscire a riempire neanche il famoso locale del salotto buono della città: la Baracchina rossa. Ecco perché i simpatizzanti del premier hanno chiesto al traghettatore-commissario Nicola Danti, europarlamentare renziano, di fare presto un congresso all’insegna del famoso motto grillino: “Tutti a casa”.

 

E così ora tocca a Filippo Nogarin cambiare una città che non ha mai voluto cambiare, finora, immersa nel suo compiaciuto immobilismo. Anche se poi, dopo la formazione della giunta, molti cittadini hanno notato con la solita vis polemica sui social network: “Dè, i nuovi assessori sanno quattro lingue, tranne il livornese”, perché alcuni amministratori di Livorno vengono da fuori, persino da La Spezia, addirittura da Firenze. Un peccato grave per una città che ama i forestieri e li accoglie con generosità, sì, ma solo se diventano livornesi. E non sopporta i turisti che possono sedersi sui loro scogli, dove nella stagione estiva si deve andare a cercare persino i commercianti per implorarli di tornare a lavorare e riaprire i negozi. E infatti quel proverbio, “Voglia di lavora’ sartami addosso, ma fammi lavora’ meno ‘he posso”, a Livorno viene preso molto sul serio. Infatti sul numero di luglio dell’irriverente e boccaccesco Vernacoliere, il direttore, Mario Cardinali, ha riassunto così la presa della Bastiglia nel palazzo municipale: “’Un volava ’na mosca all’indomani delle vottazioni! Livorno pareva ’r deserto. Le sezzioni der Piddì chiuse, stoppinate, i dirigenti de partito spariti (…) E piano piano, prima uno, poi dieci, poi cento, la gente ha principiato a mette’ fori la testa. Fa uno: ‘Ma è vero che è cascata la fortezza?’. ‘Ndove?!’, fa un artro. ‘Qui a Livorno?’. ‘Dé con tutte velle crepe. S’agguantavano co’fili, que’poveri bastioni!’.  ‘Ma no la Fortezza Vecchia, la fortezza rossa! E’ crollato ’r comune!’. ‘Vai lo sapevo! Tanto non ce n’era uno, anche lì dentro, a ’un fa ’na sega’”. Cardinali ha demolito anche il presunto desiderio di cambiamento culturale espresso dai livornesi – in teoria la vittoria del M5s ha liberato la città dalla morsa dell’apparato piddino, tendenza Cuperlo – con la pubblicazione di una fotografia intitolata: “Grossi cambiamenti a Livorno, dopo la vittoria dei 5 stelle”, in cui si legge una frase a lettere cubitali scritta su un muro scrostato della città: “Pisa Merda”. Sulla quale però qualche anima sediziosa, o forse solo grillina, ha cancellato la parola merda per sostituirla con un bel “Vaffanculo”. Si scherza, dè siamo a Livorno, ma come ha riconosciuto il candidato sindaco del centrosinistra, trombato, Marco Ruggeri, l’esito elettorale è stato semplicemente una richiesta di rottamazione generazionale. Lui, che ha 39 anni, ha accettato di esporsi e di immolarsi, consapevole di ciò che sarebbe successo. “Dai primi sondaggi, era chiaro che avremmo perso”, spiega al Foglio. “Durante la campagna elettorale, ogni volta che arrivavo a un comizio, dovevo aspettare dieci minuti prima di poter parlare, per via dei fischi e delle contestazioni. La vittoria del M5s equivale a un giudizio definitivo su una classe dirigente crepuscolare, che non vuole ammettere di essere al capolinea”, aggiunge. “E poi abbiamo pagato il prezzo per le troppe occasioni perse per rilanciare l’economia della città, dove le fabbriche hanno chiuso e quelle che si potevano salvare sono state gettate a mare. Anche se la nuova giunta non mi pare che esprima discontinuità. Il sindaco ha scelto molti assessori all’esterno del suo movimento, pescando anche in area Pd, e le sue prime esternazioni non esprimono alcuna volontà di cambiamento”, chiosa Ruggeri.  

 

Per quanto immobili e immobilisti, i livornesi, alle prese con la deflazione, la disoccupazione al 16 per cento, l’emergenza abitativa (Livorno ha la maglia nera per gli sfratti), hanno votato per un rinnovamento. E ora vogliono vedere scorrere il sangue. Almeno secondo il direttore del Tirreno di Livorno, Roberto Bernabò, che in un editoriale ha scritto: “Piaccia o meno, la città oggi vuole il sangue del partito che l’ha guidata per 70 anni”. La città, guidata da un sindaco comunista dieci giorni dopo la sua liberazione, il 29 luglio del 1944, sembra però troppo disincantata per occuparsene davvero. In balìa delle onde del mare, e della sua filosofia fatalista, badalì, (tradotto più o meno suona così: cosa vuoi che sia). Perché poi per i livornesi non è mica crollato il Muro di Berlino, l’8 giugno, ma solo un partito che non era più di sinistra e quindi “badalì”: cosa vuoi che sia una giunta grillina? In una città che ha bocciato il sindaco uscente, Alessandro Cosimi, accusato di immobilismo, anche se poi ogni cambiamento viene visto con sospetto e diffidenza. Come racconta bene in un’impietosa fotografia della città lo scrittore-musicista Simone Lenzi, nel racconto “Sul Lungomai di Livorno” (Laterza), in cui spiega che a Livorno si guarda con sospetto quei poveri disgraziati che hanno la sfortuna di vivere a Milano, Roma, Parigi o New York per via della filosofia esistenziale adottata dagli sprecati. “Ne ho conosciuti a decine di sprecati in questa città”, ha scritto Simone Lenzi. “Non che ne manchino nelle altre, ma voglio dire, che qui c’è una retorica diffusa, diciamo così, che invita allo spreco in sé. Allo scialo dell’esistenza. Sprecarsi a Livorno è la cosa più facile del mondo. Ne ho conosciuti a decine di uomini e donne, che avrebbero potuto fare qualcosa di più, e invece si sono fermati. Qualcosa li ha fermati. Qualcosa che si respira in questa città piena di vento, che ti riporta sempre indietro”.

 

econdo molti osservatori il sindaco pentastellato ha intercettato sia l’insofferenza verso il centrosinistra, diventato per i livornesi un simbolo del clientelismo, sia uno spirito conservatore dei cittadini, abituati a muoversi senza spostarsi mai. Lui lo sa e infatti ha già detto molti no. E, sebbene abbia in mente un piano ambizioso per dotare la città di infrastrutture, si è opposto, per ora, a qualsiasi eventualità di liberalizzazione degli assetti economici cittadini. Scelta comprensibile, in una città dove la libera impresa è soprattutto quella dei palazzinari, perché qui ci sono solo le Ipercoop, non si trova un solo supermercato Esselunga – Bernardo Caprotti è di destra, d’accordo – ma neanche un Carrefour, al massimo si trova qualche Pam. E se si ricorda al Nogarin che per il porto di Livorno è già tardi, troppo tardi per rimediare e renderlo competitivo – ora si pensa di scavare a meno 13 metri nei fondali per far entrare navi più grosse, mentre negli altri porti concorrenti sono già arrivati a meno 22 – lui risponde così: “Perché un uomo alto un metro e sessantatré centimetri non può ambire ad avere una bella donna?”.
Sebbene stremata dall’aumento della disoccupazione, la mancanza di certezze, il declino nel declino, Livorno è ancora una città orgogliosa della sua gioiosa surrealtà. E non solo per la beffa storica delle false teste del Modigliani. O per la vicenda mai dimenticata del calciatore Cristiano Lucarelli, che divenne un eroe nel 2004 perché rinunciò ad andare a giocare nel Torino e poi scrisse un best-seller locale (“Tenetevi il miliardo”). Un eroe finito poi nella polvere per un’intrigata vicenda politico-editoriale-finanziaria della sua famiglia. Anche se l’ex bomber forse si tiene aggrappato al ricordo di quella scritta apparsa il giorno dopo l’annuncio della scelta calcistica e patriottica – la patria di Livorno s’intende – sui muri del cimitero: “Boia, cosa vi siete persi”. Sono matti e generosi, i livornesi. Capaci di provare un sentimento di empatia anche nei confronti di una scultura.

 

Ecco perché “il Pescatore” di Mino Trafeli, ribattezzato dai suoi concittadini “il Pensatore” perché se ne sta lì sdraiato, sul lungomai di Ardenza, dal 1957, a fissare il profilo dell’isola della Gorgona, è stato circondato di attenzioni: sciarpa e cappello in inverno e una volta persino un televisore davanti agli occhi affinché non si annoiasse troppo. Eppure anche i labronici pensano tanto, persino troppo. E ora hanno fatto la bella pensata di votare il Nogarin, che non ha un cognome adatto, andrebbe meglio su nel nord-est, salvo poi pentirsene, se su twitter poi se ne stanno già lì a criticarlo, a litigare su tutto e su niente, tranne che sui problemi reali della città. Eppure il sindaco-ingegnere, interpellato dal Foglio, esclama con foia: “Livorno è una città rivoluzionaria! Qui nacque il fascismo e poi il comunismo, e ora siamo arrivati noi!” (vabbe’). E meno male che almeno il nuovo sindaco è appassionato di fumetti, soprattutto di Martin Mystère, dicono molti livornesi, perché il Cosimi, il sindaco uscente che nessuno voleva più vedere neanche dipinto sui muri mangiati dal sale, era bravo solo a citare il filosofo Jürgen Habermas.

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