Perché il processo Ruby non doveva nemmeno iniziare

Annalisa Chirico

Parla l'avvocato Dinacci. “Rispetto per toghe e leggi, ma la norma non è un potere, è un limite: contro il Cav. è stato usato il Diritto morale”. Domani la sentenza d’Appello. “Il Cav. è il migliore avvocato di se stesso, ma per fortuna serviamo pure noi”.

Milano. E’ martedì pomeriggio. In un’aula del tribunale di Milano l’avvocato Filippo Dinacci si congeda dal collega Franco Coppi dopo aver dispensato saluti e sorrisi alla Corte e al sostituto procuratore generale. Dinacci è così, quando ha di fronte a sé una toga esibisce riverenza e cortesia. “Per me il magistrato è un contraddittore, non un nemico”. Il pg De Petris? “Sobrio e correttissimo”. Ilda Boccassini? “Ha solo un carattere un po’ irruente”. La Corte d’appello? “Serenissima”. Scuola Coppi, insomma. “Non so se sia la scuola Coppi ma i magistrati sono servitori dello stato. Io stesso sono figlio di un magistrato, mia sorella era sposata con un magistrato (il senatore di FI Nitto Palma, ndr)”. Nel 1994 il padre Ugo Dinacci, capo dell’ispettorato del ministero di Via Arenula, fu accusato di aver avviato un’indagine su Antonio Di Pietro al fine di costringerlo alle dimissioni dalla magistratura. Il figlio poco più che trentenne, dopo essersi fatto le ossa nello studio di Carlo Taormina, scese in campo per difendere il genitore, e lo fece assolvere con formula piena tre anni dopo. “Peccato che con quel processo infamante mio padre si ammalò fino alla morte”. E’ lì, in quella vicenda che coinvolse e vide ugualmente assolti Paolo Berlusconi e Cesare Previti, che Dinacci junior entra nelle grazie di Silvio Berlusconi. Oggi, a distanza di vent’anni, è alle prese con la difesa del processo Ruby.

 

La giornata è stata dura, un’arringa da leone (“rigorosamente a braccio”) e poi il rientro in gabbia in attesa di domani quando si conoscerà l’esito della sentenza. Nella sua camera d’albergo a Milano Dinacci si è tolto la cravatta e si è concesso una coppetta di gelato alla crema. A Milano finalmente è estate. “I gelati alla frutta mi piacciono meno ma alla fine li mangio tutti”, la voce tradisce un inguaribile senso di colpa. Classe 1961, napoletano di origine, ha sempre vissuto a Roma. Qui ha frequentato il liceo classico De Sanctis, la madre era una “gendarme di caserma, tedesca anche se napoletana”, tutte le mattine lo tirava giù dal letto alle sei. “Devi fare i compiti”, gli diceva. “Ma li ho già fatti”, ribatteva lui. “Bene, rifalli”, serafica lei. Dopo la laurea (“con lode e dignità di stampa”) in Giurisprudenza alla Sapienza con Giuliano Vassalli, diventa ricercatore a Tor Vergata in Procedura penale, la materia che oggi insegna all’Università di Bergamo. La legalità processuale è l’ossessione di Dinacci. Per questo, quando Berlusconi ha dovuto sostituire Niccolò Ghedini (implicato nel fascicolo Ruby-ter in standby in procura), ha scelto lui. Tecnico sopraffino, maniaco dei cavilli procedurali perché “nel diritto la forma è sostanza”. Prima dei fatti, vengono le regole, e lì bisogna scavare per cogliere in fallo l’avversario. Non stupisce che nella sua arringa si sia soffermato sull’illegittimità delle intercettazioni indirette, “un sotterfugio per esercitare un controllo sullo spazio domestico privato del parlamentare senza alcuna autorizzazione”. Sempre lui ha scovato la sentenza con cui lo scorso 8 aprile la Corte di giustizia europea ha dichiarato “invalida” la direttiva sui dati personali additando la necessità di prevedere “categorie di reato” per cui sia possibile acquisire i tabulati telefonici. “Fintantoché in Italia non sarà colmato il vuoto normativo, tutti i tabulati attualmente acquisiti sono inutilizzabili”, Dinacci dixit.

 

[**Video_box_2**]“Il magistrato che telefona per il passaporto?”
Quanto all’accusa di concussione, “se un magistrato chiama in questura e chiede il passaporto per il figlio, commette forse una concussione? Il questurino è forse messo con le spalle al muro? Se rispondiamo affermativamente, accettiamo la teoria tedesca della colpa d’autore, per cui sei punito non per le tue azioni ma per la carica che ricopri”. Dinacci se la prende con gli “automatismi valutativi” alla base di una condanna senza prove, poi affonda il cucchiaino nella crema dorata, rinfresca la lingua e riprende come un fiume in piena: “Nella mia carriera ne ho viste tante ma un processo così non sarebbe mai dovuto iniziare”. Perché è iniziato? “Non sta a me dirlo. Sul piano strettamente giuridico la criminalizzazione di fatti che costituiscono usi e costumi privati è un’aberrazione”. Il peccato non è reato, d’accordo. E’ palese però uno smarcamento rispetto alla linea difensiva del primo grado che insisteva sulle “cene eleganti”. “E’ inutile negare che ci siano stati anche atteggiamenti disinvolti in un clima da locale notturno. Ma non compete a un tribunale giudicare in base a valutazioni morali. In un manuale memorabile Giuseppe Bettiol analizza la distinzione fondamentale tra diritto penale e morale. La norma per il magistrato è un limite, non un potere”. Il giurista Bettiol fu membro della Costituente e parlamentare dc. Si dice che anche lei da giovane, oltre al paracadutismo e al judo, coltivasse una passione per la Balena bianca.

 

“Sono un anticomunista ferreo e sono stato vicino ai movimenti cattolici, è vero. Però quando Radio Radicale mi invita a parlare di giustizia, io accetto. Sono una persona laica che bada ai contenuti”. A proposito di contenuti, Francesca Pascale è paladina di una battaglia politica a favore dei diritti civili delle persone omosessuali. Lei che ne pensa? “E’ un eccesso criminalizzare l’omosessualità tanto quanto considerarla normalità”. L’avvocato di Berlusconi è un teocon? “Sono un laico, cresciuto nel mito della democrazia americana di Tocqueville, sui libri di Kant e Feuerbach. Personalmente sono contro l’aborto ma voglio che gli altri siano liberi di scegliere”. Tra i clienti noti spiccano Pier Silvio Berlusconi (recentemente assolto in Mediatrade), il capo della polizia Alessandro Pansa, Federica Sciarelli, don Pierino Gelmini, Aldo Brancher, Milena Gabanelli (“ho dovuto rimettere l’incarico perché faceva sempre servizi sui miei clienti”), “una buona parte della Tangentopoli romana” (“politici dc e imprenditori vicini al Pci, difendo chi paga”). Una nota d’affetto trapela quando cito Guido Bertolaso: “E’ tornato a fare il chirurgo d’emergenza per salvare i bambini in Africa, come in quella serie televisiva degli anni 70, ‘Mash’, in cui i medici operavano sotto le bombe della Guerra di Corea”. Ma è vero che Ghedini rimane il vero dominus della difesa del Cav. anche quando non la assume formalmente? “Lui è la memoria storica, non il dominus”. Ammetta, è meno caloroso di Coppi. “La timidezza lo fa apparire freddo. Mi capita di pranzare con lui prima o dopo un’udienza. Diciamo che siamo diversi. Si vede anche a occhio nudo, io tendo di più all’abbondanza”. Abbandona il cucchiaino e sorride sornione. “Adesso devo salutarla, mi chiamerà il presidente, vuole farmi un’annotazione tecnica”. Dopo vent’anni di processi il Cav. è il migliore avvocato di se stesso. “Ma per fortuna serviamo anche noi”. Dinacci si rimette a compulsare i fascicoli. La tensione è palpabile. Nel weekend tornerà nella sua villa romana a Vigna Clara dove lo attendono la moglie Isabella e i tre figli. “Un tempo mi aspettava anche un cane di nome Slobby, che feste che mi faceva. Lui sì che aveva il senso della famiglia. Si ricordi: evitare gli eccessi”.