Etihad non molla Alitalia, ma azionisti e sindacati non sono più “special one”

Redazione

L’ad degli emiratini Hogan fa capire a sindacati e azionisti che ora i ritmi  li detta il mercato. “Entro fine mese”. La Cgil certifica il suo “no”.

Quello di ieri a Roma per James Hogan, amministratore delegato di Etihad, non è stato né il giorno del giudizio né la deadline per l’accordo con Alitalia, come molti di parte italiana speravano o temevano. Ufficialmente in Italia per inaugurare il volo diretto tra la capitale e Abu Dhabi, con cena di gala a Villa Miani, Hogan ha detto chiaramente di puntare al 49 per cento della compagnia, concedendo un po’ più tempo alla controparte e dando la sensazione di considerare strategica l’operazione “perché da soli né Etihad né i nostri partner possono sperare di competere con i vettori di bandiera europei e con le loro alleanze”. Ma altrettanto chiaramente ha aggiunto di non considerare gli attori principali della vicenda Alitalia – personale, azionisti, debiti – come degli “special one”, cioè situazioni da trattare diversamente rispetto a quel che chiede il mercato nonché alle altre partnership concluse da Etihad. “I negoziati con i sindacati sono in mano ad Alitalia, io non partecipo alle trattative, ma noi abbiamo idee chiare su quale dovrà essere la dimensione futura della compagnia”. Mentre speciale è senz’altro la visione che hanno di sé dipendenti, sindacati, azionisti pubblici e privati, manager, tutti i personaggi e interpreti dell’Alitalia: oggi nella trattativa con Etihad, così come fu nel 2008 con i “capitani coraggiosi” di Roberto Colaninno che tentarono l’avventura in solitario, finita con perdite per 570 milioni nel 2013. Nonostante le rassicurazioni di Hogan e dei ministri Maurizio Lupi e Giuliano Poletti, che seguono da vicino la questione, non c’è ancora nulla di normale in Alitalia.

 

Per cominciare i sindacati confederali: ieri Susanna Camusso ha formalizzato il “no” della Cgil all’accordo sugli esuberi, invocando il proseguimento di una cassa integrazione eterna che avrebbe tenuto tutti i dipendenti incollati all’azienda, a carico dello stato. Ma nella notte è sbucata anche la Uil a porre il problema “della misurazione della rappresentatività per l’applicazione del contratto”. Quindi piloti e hostess dell’Anpac: dopo avere inviato a Etihad una lettera aperta dicendosi pronti all’autoriduzione del costo del lavoro, e denunciando “anacronistiche e obsolete rendite di posizione”, ecco la capriola: la riduzione non è ovviamente gratis ma impatterà, una tantum, per 16,5 milioni sui piloti, per 8,5 sugli assistenti di volo e per 5 sul personale di terra, con contributi parametrati agli stipendi (fino al 10 per cento oltre i 90 mila euro). Dunque minaccia di guerra secondo un copione già visto nel 2008, quando eroina della lotta fu Maruska Piredda, hostess stanziale in tv da Michele Santoro, poi ingaggiata da Antonio Di Pietro che picchettava Fiumicino, quindi ascesa a capogruppo dell’Idv in Liguria dove ora è indagata per via di spese facili. Ieri sera è stata annunciata da fonti sindacali una ripresa delle trattative. Comunque a questi due fronti di “special one” si aggiunge un uso davvero particolare di cassa integrazione e ammortizzatori sociali: infatti come ne ha l’Alitalia non esistono per nessuno. Quattro anni a zero ore, altri tre in mobilità; con l’80 per cento dello stipendio e trattamenti medi di 5 mila euro per i piloti e 3 mila per hostess e steward. Il tutto finanziato da continue erogazioni dei governi al Fondo volo, pagato con sovrapprezzi sui biglietti e altri pedaggi. Solo nel 2012 le deroghe per la cassa integrazione Alitalia hanno richiesto 14 diversi decreti. Ma non ci sono solo sindacati, personale e privilegi.

 

[**Video_box_2**]Gli azionisti non hanno fatto eccezione: dopo essersi fatti ripulire da perdite e debiti la compagnia nel 2008, Colaninno e soci hanno focalizzato il piano industriale sulle rotte interne, sbaragliati così dall’alta velocità ferroviaria; non hanno chiuso un solo bilancio che non fosse in rosso; hanno accumulato un altro miliardo di debiti. Il tutto in un tourbillon di tre amministratori delegati. Ora, mentre le banche si dicono disposte a una sanatoria, purché garantita dallo stato, sono le Poste pubbliche a pretendere un trattamento a parte. Erano entrate con il 19,5 per cento e 75 milioni a fine 2013, quando c’era Massimo Sarmi alla guida, che intendeva ingraziarsi il governo Letta. Adesso che Matteo Renzi ha rimpiazzato Sarmi con Francesco Caio, il nuovo capo azienda (che le Poste dovrebbe privatizzarle) invoca il “faro del mercato”.