La Bohème ha bisogno dell'orchestra per essere il capolavoro che è

Mario Leone

Grande è il compito del giovane direttore Daniele Rustioni che sino al nove agosto è chiamato a dirigere alle Terme di Caracalla, con il Coro e l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma (che alla prima di lunedì ha scioperato costringendo la compagnia ad andare in scena con il solo accompagnamento del pianoforte).

Roma. Vigilia di Natale. Cade la neve su Parigi. Le vetrate di una soffitta nei pressi di Notre Dame si aprono sul cielo bigio per il fumo dei camini che a tratti oscura la vista della Senna e dei viali. In quella soffitta, luogo reale e simbolico, si consuma il dramma di Mimì, giovane e umile ricamatrice di fiori, e svanisce la speranza di un amore eterno con Rodolfo. “Ho tante cose che ti voglio dire o una sola, grande come il mare, come il mare profonda ed infinita, sei il mio amor e tutta la mia vita!”. Sono le parole struggenti che gli rivolge Mimì morente.

 

Henri Murger, autore del romanzo “Scènes de la vie de bohème” (cui l’opera pucciniana s’ispira) descrive un mondo di giovani spensierati (oltre a Mimì e Rodolfo, i loro amici Musetta, Marcello, Schaunard e Colline) nel pieno di quella “età d’inganni ed utopie” dove “si crede, si spera e tutto bello appare”. Mimì viene dalla vita concreta, Rodolfo invece è uno scrittore in erba con grandi sogni e poco talento. Personaggi a prima vista mediocri sono inseriti in una cornice musicale di grazia e profondità riservate in passato ai personaggi risorgimentali delle opere verdiane. L’assoluta novità che Puccini introduce è elevare al rango di eroi, con la musica, due figure di tutt’altro spessore. Nella Bohème suoni e drammaturgia si compenetrano. Un’attenzione quasi cinematografica fa corrispondere alla musica ogni minimo gesto scenico: una partitura prettamente verista nella quale il rischio per gli interpreti è lasciarsi andare a languide scelte interpretative o a gesti che provocano l’applauso. Sia a livello agogico che didascalico Puccini è esigente. Quasi regista di se stesso, egli scrive tutto quello che desidera in un lavoro che appare, negli intrecci tematici e nelle dissonanze, già novecentesco. Anche la parola sembra prendersi la sua rivincita, riequilibrando le proporzioni verso quel vagheggiato “recitar cantando” ch’era stato la chimera degli albori dell’opera in musica: nei primi minuti di Mimì ci si trova di fronte a dialoghi sciorinati con la stessa naturalezza e libertà formale del teatro di prosa ma caricati di un’intonazione canora che introduce un valore quasi paralinguistico.

 

Grande è perciò il compito del giovane direttore Daniele Rustioni che sino al nove agosto è chiamato a dirigere alle Terme di Caracalla, con il Coro e l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma (che alla prima di lunedì ha scioperato costringendo la compagnia ad andare in scena con il solo accompagnamento del pianoforte), una partitura tenuta a battesimo dal ventinovenne Toscanini e ritenuta di notevole difficoltà da Von Karajan e Bernstein. La Bohème è certo un’opera nella quale l’orchestra è determinante come non mai. Essa conduce il discorso, per quanto frammentario, continuamente interrotto e ripreso, lanciato a velocità vertiginose o rallentato fino a bloccarsi in silenzi interlocutori senza riferimenti formali preordinati. Quello che ne scaturisce è un capolavoro senza tempo che però a lungo ha raccolto aspre accuse da una critica che imputava al Compositore mancanza di respiro culturale e morale e una certa chiusura provinciale.

 

Emblematiche in questo senso le parole di Carlo Bersezio sul quotidiano la Stampa dopo la première il primo febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino: “La Bohème come non lascia impressione nell’animo degli uditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico, e sarà bene, se l’autore, considerandola come l’errore di un momento, proseguirà la strada buona e si persuaderà che questo è stato un breve traviamento del cammino dell’arte”. Un giudizio smentito negli anni non solo dal pubblico e dal numero di repliche della Bohème in tutto il mondo, ma anche dalla stima di Igor Stravinsky. La prima parte di Pétrouchka riprende la fragorosa musicalità della “fanfara delle tre trombe”, motivo portante l’intero secondo quadro di Bohème. E se questo non bastasse, il compositore russo poi dirà, a voler dissolvere ogni dubbio residuo: “Più invecchio, più mi convinco che la Bohème è un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello”.

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