Silvio Berlusconi (Foto Lapresse)

Assalto al timone

Il Cav. Gulliver, i nani che vogliono scalarlo e l'erede indicibile: Renzi

Salvatore Merlo

I frondisti, i cacicchi del sud, le rasoiate fra prime donne e la sensazione del diluvio in vista. A meno che…

Roma. La gara è aperta, ognuno prepara il suo assalto alla timoneria, ciascuno a modo suo, come può. E dunque Giorgia Meloni raccoglie firme per le primarie di coalizione, “bisogna scegliere così il leader”, e firmano in tanti, Giovanni Toti e Mariastella Gelmini, persino gli uomini di Alfano, Cicchitto e Quagliariello, poi Matteo Salvini, i leghisti, “una nuova destra e un nuovo leader”, pensano. Ma contemporaneamente Raffaele Fitto anima la fronda parlamentare, mostra muscoli e manipoli, chiede primarie interne a Forza Italia, si rappresenta – come forse è – principe del consenso meridionale, feudatario e campiere, e dunque dissemina di trappole e trabocchetti la strada delle riforme, fa esplodere petardi tutt’intorno al patto tra Berlusconi e Renzi. “Il Senato non elettivo è uno sbaglio”, dice, mentre accompagna, scortato da Minzolini, oscuri movimenti di truppe in Parlamento a una trama più ambiziosa, che riguarda l’orizzonte, il futuro, la ricostruzione d’un mondo che già considera inutilizzabile il vecchio Cavaliere condannato e interdetto. Venerdì il botto della sentenza Ruby, e poi il processo di Napoli per la compravendita dei senatori, e ancora Bari, per l’affaire Tarantini, la storia della presunta corruzione di testimoni.

 

E insomma troppo, troppo per chiunque, troppo persino per l’uomo che amava definirsi invincibile. Così nel centrodestra pulviscolare, in quell’ipogeo brulicante di Forza Italia, tutt’intorno al gigante ammaccato, fermentano manovre, germogliano ambizioni, sogni e speranze d’una corte di nani che s’agita intorno a questo Gulliver imbrigliato, avvolto nel sudario giudiziario, colpito da una penombra fosca: c’è la ribellione dei peones in Senato, c’è la sorridente e smaniosa fidanzata Francesca (“se avessi lo stesso cognome di Marina mi candiderei al volo”), i tentativi dell’azienda – e dei figli – di mettere al riparo il portafoglio, la ghirba, la roba. E dietro ogni parola è legittimo vedere il balenìo d’uno specchietto allusivo, negli schiaffetti tra Pascale e Santanchè, tra Toti e Verdini, tra Romani e Brunetta. Ognuno cerca l’eredità, ma tutti scontano un doppio equivoco: l’erede metaforico c’è già. Ed è Renzi. E poi il Cavaliere un partito non l’ha mai creato, mai voluto. “Dopo di me il diluvio”, è il suo epitaffio.

 


“Alle politiche, plausibilmente, scenderà la percentuale di voti del Pd”, ha scritto Angelo Panebianco, domenica, sul Corriere della Sera. “Renzi potrebbe uscirne lo stesso vincitore”, ha aggiunto il professore, “per le sue capacità, certo, e soprattutto perché difficilmente la destra farà in tempo a dotarsi di un capo in grado di sostituire Berlusconi. Se però la destra ci riuscisse, allora per Renzi sarebbero dolori. Potrebbe perdere le elezioni e perderle di brutto. In questo caso, tasse e immigrazione sarebbero le cause della sua sconfitta”. Ma chi lo batte Renzi? Dov’è l’erede del Cavaliere? E’ questo il problema, la ragione d’ogni tramestio e invettiva, d’ogni baruffa dentro Forza Italia, d’ogni tentativo più o meno maldestro di sabotare i patti del Nazareno e la trama di quel Denis Verdini che forse, unico, chissà, per cinismo e fiorentinismo, interesse e rassegnazione, accompagna la stramba evidenza di un’eredità che per ribalderia e carisma, prossemica e ambiguità logica, si trasmette per pazza e incongrua trasfusione dal Cavaliere al ragazzino di Firenze, dal Sultano al Rottamatore, dall’appestato al monello. E insomma l’eredità si trasmette così, con stramba asimmetria da Berlusconi a Renzi, mentre nella destra si tessono trame per scalare un partito vuoto, che non è mai esistito se non intorno al denaro, alle televisioni, alla fantasia, all’anomalia padronale del Cavaliere, cumenda e uomo di stato, brianzolo e romano, imprenditore e politico.

 

Anche in America la destra repubblicana vive una crisi tremenda, ma il ceto politico non combatte per agguantare un pennacchio colorato, una medaglietta, una poltroncina, un simulacro del potere, non ci si accoltella per la leadearship del niente. I repubblicani statunitensi, dopo i recenti rovesci (secondo loro colpa dell’estremismo dei Tea Party), hanno scelto di praticare un’autopsia producendo idee e cercando nuovi blocchi sociali cui affidare la rivincita a venire. Il conservatore Ross Douthat, sul New York Times, incarna la vitalità di un mondo capace di ripensarsi, ridefinirsi, rinascere dalla cenere della sconfitta alle presidenziali. Ma in Italia è uno spettacolo di gladiatori nel circo, in lotta non con le belve ma con la stanchezza, l’abbrutimento e l’angoscia. Paolo Romani ha convocato per oggi l’assemblea congiunta dei gruppi di Camera e Senato, e i parlamentari di Forza Italia, come una settimana fa, rischiano di scambiarsi di nuovo botte alla presenza del Sovrano, lui che questa pazza assemblea, convocata per discutere delle riforme, ma in realtà per saldare i troppi conti aperti, ha cercato d’evitarla, di cancellarla dall’orizzonte. E insomma la destra è un mare che si arruffa infido, un formicolare di lillipuziani intorno a un Gulliver imbrigliato che sembra chiedere soltanto una stilla di misericordia alla fissità della stella giudiziaria.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.