Cristiano Ronaldo testimonial pubblicitario del Banco Espirito Santo

L'assalto giudiziario alle banche acutizza l'allergia al dollaro

Ugo Bertone

Cresce l’insofferenza franco-tedesca alle multe americane mentre il credito portoghese allarma le Borse.

Milano. “Dove vivrò fra tre anni? Proprio non lo so…”, sorride Cristiano Ronaldo, avvinghiato prima con una bionda valchiria molto cool in mezzo ai ghiacci, poi ai Tropici con una creola very hot. “Pero si sé donde estará mi dinero – continua il pallone d’oro – Estará en Bes”. Speriamo, per lui, che l’asso del Real Madrid, già bastonato con il suo Portogallo al Mondiale, abbia mentito per motivi pubblicitari. Perché “Bes” sta per Banco Espirito Santo, cioè la prima banca portoghese, che fa capo a una delle più nobili famiglie lusitane, che ieri ha scatenato il panico sulle Borse europee. Ciò dopo che la holding di casa, la Financial Espirito Santo del Lussemburgo, ha annunciato il default di un’obbligazione del gruppo dopo che i creditori avevano rifiutato di lanciare a Ricardo Salgado, l’esponente più illustre del clan, la ciambella di salvataggio mentre il governo, furibondo, imponeva alla guida del gruppo un commissario indipendente, Vitor Bento, in luogo del vice del banchiere, Amílcar Morais Pires. Uno strappo inaudito per il Portogallo da poco più di un mese uscito dalle terapie della Troika. Perciò il crac di Espirito Santo, sotto del 19 per cento dopo una settimana di ribassi, provoca reazioni esagerate in tutta Europa: brucia la vicenda finaziaria ma ancor di più pesa la figuraccia dell’ex ministro delle Finanze del Granducato, Jean-Claude Juncker, probabile prossimo numero uno della Commissione con la benedizione di Angela Merkel, ovvero colui che avrebbe dovuto vigilare sulla salute della holding. E così, nonostante i brividi che la crisi del Bes di Lisbona ha provocato anche dalle parti di Wall Street, sia a Washington, al dipartimento di Giustizia, che a New York, presso la Fed, qualcuno ha segnato un punto a favore. La giornata, infatti, si era aperta con la notizia di una nuova pesante ammenda inflitta dalle Autorità americane a una banca europea. Stavolta, dopo il salasso di 8,9 miliardi praticato nei confronti di Bnp Paribas, è toccato alla Commerzbank, la seconda banca tedesca, al 17 per cento controllata dal ministero delle Finanze di Berlino protagonista del salvataggio necessario dopo il crac di Lehman.

 

L’istituto è accusato di aver fatto affari con l’iraniana Shipping Lines anche dopo le sanzioni decretate contro il programma nucleare. Niente di meglio per ravvivare la rabbia di Angela Merkel, già furibonda per i nuovi casi di spionaggio Usa nei confronti di Berlino. Ma, tanto per aumentare la tensione, già si profilano altri dossier. Dal dipartimento di Giustizia, infatti, filtrano indiscrezioni (di solito affidabili) su altre banche che avrebbero violato l’embargo: le francesi Crédit Agricole e Société Générale, la Deutsche Bank, già nel bersaglio delle Autorità americane per l’attività sul mercato delle valute. E ci sarebbero indagini in corso anche su Unicredit. Insomma, ce n’è per tutti anche perché all’appello non manca una delle banche più illustri della City, come Barclays, accusata di frode per aver sottaciuto ai clienti che i loro depositi sarebbero stati impiegati per speculare sui listini elettronici ad alta velocità.

 

[**Video_box_2**]Sia a Parigi sia a Berlino le diplomazie stanno affilando le armi. E, pare, pure Mario Draghi si sia già mosso per frenare la corsa alle multe che rischiano di compromettere le ricapitalizzazioni degli istituti che apparivano, almeno fino a ieri, “too big to jail”. Per ora Washington ha risposto picche, sottolineando che le indagini non hanno certo risparmiato le banche di casa: ne sa qualcosa Citigroup sotto torchio per il riciclaggio dei quattrini dei narcos sudamericani. “Ma chi ha autorizzato le Autorità degli Stati Uniti?”, tuona il ministro francese delle Finanze Michel Sapin, a punire banche di altri paesi per attività con controparti terze che, per giunta, spesso non sono avvenute sul suolo americano? Parigi, una volta esaurite le armi della diplomazia (“spiacente – ha detto Barack Obama a François Hollande – ma non ho modo d’intervenire su materie che riguardano i nostri tribunali”), ha deciso di alzare il tiro, accusando gli Stati Uniti di violare leggi internazionali. Accusa respinta al mittente: assai difficilmente Washington rinuncerà a una delle armi anti terrorismo rivelatesi più efficaci. Il principio è che ogni operazione effettuata in dollari deve rivelarsi conforme alle leggi americane, pena sanzioni imposte senza alcun vincolo territoriale. Come ha affermato il procuratore generale degli Stati Uniti, Eric Holder, “nessun individuo, nessuna istituzione che fa del male alla nostra economia deve sentirsi al di sopra delle nostre leggi”. Ovvero, qualsiasi transazione in dollari, ovunque avvenga, può essere esaminata e giudicata dagli inquirenti americani. Perciò, poco conta che Bnp Paribas abbia trafficato in petrolio con il Sudan magari a migliaia di chilometri dai confini americani: le operazioni di vendita del greggio sudanese sono avvenute in dollari, valuta che non ha alternativa. Lo stesso vale per Cuba, rifornita dalla banca parigina di cereali e greggio, sempre in dollari.

 

Le piste del dollaro si rivelano più efficaci dei droni per gli inquirenti che inseguono sui terminali delle banche di tutto il mondo le tracce degli affari della Corea del nord o di al Qaida nella convinzione che l’euro non potrà mai sostituire il biglietto verde come strumento per il business. Ne è convinta anche la Cina che s’accinge però a lanciare la sua sfida: martedì e mercoledì prossimo, i rappresentanti dei Brics decideranno di promuovere Shanghai quale sede della banca di sviluppo promossa delle economie emergenti: 50 miliardi di dollari di capitale più altri 100 accantonati in un fondo da utilizzare in caso di crisi. Pechino fornirà buona parte delle munizioni finanziarie all’istituto che sarà presto affiancato da una banca regionale asiatica in aperta concorrenza con la banca asiatica promossa dalla Banca mondiale (con capitali giapponesi). La sfida al dollaro (e ai giudici americani) passa dall’Asia, non dalle rotte atlantiche.