L'imprenditore Alfredo Romeo

Vi ricordate Romeo, quello degli appalti napoletani? “Il fatto non sussiste”

Alessandro Giuli

Il fatto non sussiste, la riabilitazione è nitida, anche se occupa poco più di qualche riga nei dorsi locali. La Cassazione ha annullato “senza rinvio” la sentenza con cui l’imprenditore e avvocato Alfredo Romeo era stato condannato a tre anni di reclusione per corruzione, turbativa d’asta e rivelazione di segreto nell’inchiesta così detta Global Service, che però era in realtà un fantomatico appalto mai partito.

Il fatto non sussiste, la riabilitazione è nitida, vorremmo dire anche tonante ma così non è, visto che occupa poco più di qualche riga nei dorsi locali (compresi quelli dei giornaloni che per sei anni e mezzo hanno mostrificato un innocente sulle loro prime pagine). La notizia è che la Cassazione ha annullato “senza rinvio” la sentenza con cui l’imprenditore e avvocato Alfredo Romeo era stato condannato a tre anni di reclusione per corruzione, turbativa d’asta e rivelazione di segreto nell’inchiesta così detta Global Service, che però era in realtà un  fantomatico appalto mai partito. Ripetiamo: la Suprema corte “annulla senza rinvio… perché il fatto non sussiste”.

 

Quel che la Cassazione non può invece annullare attraverso il dispositivo della sua coraggiosa sentenza (l’annullamento senza rinvio è una deliberazione rara e inappellabile), in attesa delle motivazioni, sono i settantanove giorni di galera inflitti ad Alfredo Romeo: il carcere si aprì per lui e per altre sedici persone il 17 dicembre del 2008. Il 3 gennaio dell’anno successivo l’attuale sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, allora giudice del riesame assieme alla collega Stefania Daniele, gli negò la liberta.

 

Da allora a oggi, su Romeo è stata detta qualunque cosa: la sua centralità nella gestione del patrimonio immobiliare del comune di Napoli, la sua rete trasversale di relazioni con il mondo della politica hanno autorizzato i gazzettieri delle procure a titolare pigramente sulla “Tangentopoli napoletana”, con il solito corredo di espressioni mostrificanti: “Corruttela”, “mazzette”, “appalti pilotati” (Romeo vantava crediti per più di 20 milioni di euro non pagati dal comune ed era lui a rifiutare altre gare d’appalto). Fin qui la ricognizione d’una vicenda nemmeno troppo originale, nell’Italia del contropotere togato e della nevrosi mediatico-giudiziaria che criminalizza l’intrapresa privata per ridurre la politica in stato di minorità.

 

Liberato da una sentenza ingiusta, l’interessato rifugge il vittimismo (“la verità prima o poi trionfa sempre”). Ma resta molto da dire sugli effetti collaterali di un’inchiesta che ha procurato danni economici e d’immagine (quanti contratti avrebbe potuto rinnovare il gruppo Romeo, al netto dei rovesci giudiziari? Chi potrà quantificarli? E per quale, impossibile risarcimento?) e che sopra tutto è stata accompagnata da un cono di luce acceso con ferocia caricaturale e voyeuristica. Romeo non è stato trattato come un indagato, imputato e condannato in via non definitiva ma nel pieno possesso del suo diritto alla presunzione d’innocenza e alla riservatezza; Romeo, sempre secondo i canoni della sua caricatura selvaggia, è stato dipinto come “un sistema” deviato, personificato dal quattrinaro campano con la camicia rosa, i bottoni slacciati e l’inclinazione naturale a delinquere (non è forse nato a Caserta?).

 

Di più, Romeo è diventato una figura retorica, se non un’unità di misura del malaffare inteso come un male necessario: pochi giorni fa, senza cattive intenzioni ma guadagnandosi una querela, il manager Franco Tatò ha cercato di giustificare così, con il quotidiano Libero, la sua predilezione per i corruttori rispetto agli incompetenti: “Finché c’era Romeo che magari pagava le mazzette ma puliva i tombini l’acqua scorreva e Roma non finiva in tilt” (si parlava di acquazzoni). Se poi si volesse dire del danno erariale e delle responsabilità civiche, si dovrebbe far notare che Napoli attende ancora un piano di gestione paragonabile a quelli di Romeo e su cui s’è basata una persecuzione durata quasi sette anni: nel 2007, alla città di De Magistris fu certificata l’esigenza d’un progetto di spesa da 400 milioni di euro in dieci anni.

 

Che cosa sia rimasto, di quel piano, non è chiaro. Ma su Repubblica c’era scritto questo: “Spetterebbe al comune” manutenere “la parte centrale e sovrastante i fregi del varco di via Toledo”, quelli da cui sono piovute “le dieci pietre che hanno ferito a morte Salvatore, ragazzino innocente venuto da Marano per farsi lapidare dall’incuria”.

 

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