In bilico sulla Tirreno. A soffrire sono i piccoli imprenditori che vivono in simbiosi con la centrale e le cinquecento famiglie che dipendono dal suo pieno funzionamento

Danni ambientali

Alberto Brambilla

Ora scricchiola il teorema dei giudici che hanno messo i sigilli alla Tirreno di Vado Ligure. “E’ meglio tutelare la salute che il lavoro”. Ma adesso, a impianti fermi, i numeri sulle polveri sottili sono peggiorati e barcollano centinaia di aziende dell’indotto.

A quattro mesi dal fermo dei gruppi a carbone della centrale elettrica della Tirreno Power di Vado Ligure, accusata di “disastro ambientale”, parola abusata nel diritto e sulla stampa, il presupposto ideologico su cui la magistratura ha costruito una crociata anti industrialista, servendosi di dati discutibili, mostra tutta la sua debolezza. La procura ha usato alcune consulenze di parte, anche ambientalista, che mostravano il deterioramento della vegetazione di licheni nell’area (“desertificazione lichenica”) come prova dell’inquinamento ambientale prodotto dall’azienda – che non ha mai superato i limiti di legge, ed è il giudice stesso a dirlo – e le ha messe in relazione diretta con il presunto aumento delle malattie e dei decessi per patologie cardio-respiratorie nell’area attorno all’impianto nel corso dell’ultimo decennio, sulla base di meri calcoli statistici sui ricoveri ospedalieri che pure variano anche a causa della demografia del territorio rivierasco, dove la popolazione anziana migra dal nord Italia. Il giudice per le indagini preliminari, Fiorenza Giorgi, a pochi giorni dalla firma del provvedimento di sequestro dell’11 marzo, in risposta alle preoccupazioni degli operai ha così motivato la decisione: “Capisco l’emotività, le ragioni dei lavoratori e quelle dell’azienda. Ma un giudice deve fare i conti con la salvaguardia di un diritto fondamentale come quello alla salute, non si può dire: io preferisco mangiare, e rischiare”, dice aggiungendo di non considerarsi una “persecutrice di aziende” e di essere disposta a predisporre il dissequestro una volta che saranno fatti gli interventi di ambientalizzazione. Tuttavia gli ultimi dati ambientali dall’agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpal) indicano che, da quando gli impianti a carbone della centrale sono fermi, per le sostanze inquinanti rilevate, come il biossido di zolfo, non è cambiato sostanzialmente nulla e per le polveri sottili c’è stato addirittura un incremento (confrontando i tre mesi analoghi del 2013). L’Arpal, che misura dati dell’inquinamento reale, ha sempre affermato che non ci sono criticità ambientali a Savona, precisando in una indagine epidemiologica del 2008 che “da un raffronto con dati nazionali, le zone oggetto dell’indagine presentano una situazione analoga, ed in alcuni casi migliore, rispetto a zone dell’Italia simili per concentrazione di insediamenti urbani e industriali”.

 

L’evidenza dei rilievi ambientali asseconda i dubbi di chi aveva criticato l’intervento coercitivo della magistratura all’indomani della decisione, come alcuni esponenti del Partito democratico savonese, in particolare i più giovani che si erano levati contro i più anziani, più accondiscendenti con le decisioni dei giudici. Uno scontro generazionale. Sulla base degli ultimi rilievi sono stati avanzati dubbi anche dal presidente della regione Liguria, Claudio Burlando (Pd): “Alcuni dati crediamo debbano essere chiariti. La centrale è chiusa da un po’ e non c’è una significativa differenza nei parametri ambientali. Pensiamo che l’esperienza empirica un po’ conti”, ha fatto notare Burlando di fronte al ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e al ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, il 1° luglio in sede di discussione sulla crisi dell’intero gruppo Tirreno Power. La crisi del gruppo che vende elettricità al gestore della rete elettrica Terna deriva dalla depressione generale del mercato elettrico. La proprietà del gruppo è divisa a metà tra Gaz de France e la holding Energia Italiana, di cui ha la maggioranza Sorgenia, società in procinto di passare sotto il controllo delle banche creditrici della famiglia De Benedetti che l’ha gestita per anni e si è pentita dell’affare (già a febbraio aveva chiarito di non essere interessata a investire o a ristrutturare Tirreno). La difficile situazione finanziaria si è dunque complicata ulteriormente con l’intervento della magistratura. Per ogni giorno di chiusura degli impianti a carbone (ne resta attivo solo uno a gas) i mancati ricavi arrivano a 200 mila euro.

 

[**Video_box_2**]Lunedì scorso i sindacati hanno trovato l’accordo per la mobilità volontaria di almeno cento operai Tirreno, scongiurando la prospettiva di 315 esuberi sui 512 dipendenti del gruppo che, oltre a Vado, opera a Napoli e a Civitavecchia. Su queste basi, la settimana prossima verrà valutata la sospensione dello sciopero generale proclamato in precedenza. “La chiusura di Vado ha fatto precipitare la situazione in tutto il gruppo. Questo atteggiamento pregiudizialmente contrario all’industria è un problema sia di una parte dell’opinione pubblica e sia di parte della politica che spesso sono accondiscendenti con queste derive anti industrialiste. Quando si prendono dei provvedimenti giudiziari come il sequestro si rischia di non risolvere i problemi, anzi, di aggravarli, bisogna valutare il danno che si va a causare”, dice al Foglio Paolo Pirani, segretario generale Uiltec per i settori tessile, chimico ed energia. Resta incerto lo sviluppo industriale. Ci sono due procedimenti paralleli. Da un lato il governo si è impegnato a valutare una nuova Autorizzazione integrata ambientale a metà settembre. Dall’altro, la magistratura è chiamata a rispondere all’istanza di dissequestro presentata dall’azienda due mesi fa. Ora è nel limbo. La crisi di Vado insiste sul ponente ligure, che, finora, aveva tenuto botta alla crisi. “Quando gli altri stavano già chiudendo il tessuto imprenditoriale ha tenuto grazie alla sua vocazione multisettoriale (impiantistica, meccanica, automotive, chimica, servizi, turismo) ma dal 2013 la crisi s’è fatta sentire in modo più forte: le piccole e medie imprese che lavoravano solo con l’Italia hanno cominciato a non fatturare, e quando pure la Germania ha frenato anche chi esportava ne ha sofferto”, dice al Foglio Alessandro Berta, direttore Unione industriali di Savona, secondo il quale il tasso di disoccupazione nella provincia ora tocca il 15-16 per cento, tre punti sopra la media nazionale del 12,6 (28 mila persone senza impiego su 286 mila residenti, anziani e bambini compresi). Il tenore di vita dei cittadini è andato progressivamente deteriorandosi. Una ricerca delle Università Bocconi, di Berkeley e la European University presentata (ironia della sorte) alla Fondazione Rodolfo De Benedetti dimostra che quella di Savona è la provincia con il più basso potere d’acquisto d’Italia. Il rapporto simbiotico con la centrale mina la sussitenza di un centinaio di attività locali. Lo scalo di Vado, gestito dalla Terminal Rinfuse Italia, di proprietà di alcuni fondi esteri della multinazionale Euroports, dopo la chiusura degli impianti a carbone ha visto ridursi i carichi del minerale del 50 per cento in media tra aprile e maggio, secondo i dati provvisori dell’Autorità portuale. Non solo. Tra indotto diretto – sono 89 le aziende autorizzate a lavorare nel perimetro della centrale ogni giorno – e indiretto, Tirreno dà lavoro a circa 500 persone, cioè cinquecento famiglie. E molte aziende in numero crescente stanno aprendo le procedure di ricorso agli ammortizzatori sociali o hanno intenzione di aumentare le ore di cassa integrazione. L’azienda di manutenzione dei fratelli Sambin collabora con la centrale da venticinque anni, quando ancora era gestita dall’Enel, e nel 2015 compirà settant’anni di attività. Senza uno sbocco alla crisi, il mese prossimo per la prima volta potrà arrivare a chiedere la cassa integrazione per la metà dei suoi cinquanta operai che aggiustano tutte le macchine rotanti della centrale (pompe, motori, turbine). Quando l’attività di manutenzione è al massimo, durante le fermate programmate, arriva a impiegare un centinaio di persone.

 

Tito Sambin, uno dei proprietari, dice che da quando la centrale è stata bloccata ha perso circa 250 mila euro di fatturato al mese ma che, per il momento, non ha problemi con le banche. A preoccuparlo è invece l’incertezza attorno al futuro della Tirreno: “Per qualche mese ci si arrangia”, dice, può trasferire alcuni operai all’altra sua azienda di costruzione di materiale rotabile, la Movinter, “ma se ci fosse un po’ di chiarezza uno si potrebbe organizzare meglio”. Per Sambin la prospettiva di una chiusura, al netto dei ricaschi economici, sarebbe grave per la perdita di competenze che comporta: “I nostri meccanici sono degli specialisti di alto livello: la manutenzione di pompe o motori di grossa portata non è uno scherzo. Se lo si perde, questo sapere non verrà più trasferito ai giovani”, chiosa Sambin.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.