Consigli non richiesti per far fuori la retorica dal semestre Ue

Andrea Garnero

L’euro non può vivere di sola Bce. Perché l’idea del sussidio unico per i disoccupati non è una boutade assistenzialista

Flessibilità va cercando, ch’è sì cara… Così si è aperto il Semestre di Presidenza italiana dell’Unione europea. Sei mesi molto brevi, dedicati in gran parte al rinnovo delle cariche, ma in cui si potrà fare qualcosa per cambiare la narrativa europea. I temi economici ovviamente continuano a farla da padrone e “flessibilità” è diventata la parola d’ordine dopo quattro anni di “rigore”.
Flessibilità rispetto a cosa? L’Ue durante la crisi ha ritoccato notevolmente il quadro delle regole di Maastricht (il 3 per cento di deficit e il 60 per cento di debito) che erano considerati troppo “stupidi” e meccanici. Così ora gli stati europei devono rispettare un percorso per raggiungere il pareggio strutturale (cioè al netto del ciclo economico) nel medio-periodo (il 2015 per l’Italia) e garantire un percorso di rientro del debito in eccedenza rispetto al 60 di un ventesimo all’anno. Obiettivi non troppo impegnativi se potessimo contare su un po’ di crescita e un po’ di inflazione. Ma ardui nell’attuale scenario di crescita anemica e inflazione ai minimi storici.

 

La questione della flessibilità ha assunto, quindi, un ruolo chiave nel dibattito di queste settimane. Uno scenario quasi da battaglia finale. Ma, seppur utile per non ritornare al periodo delle manovre da miliardi di euro, si tratta di una questione contingente che non cambierebbe di molto il quadro generale di politica economica europea che si fonda ancora quasi solo sul controllo delle finanze pubbliche. La crisi non è stata causata solo dalla dissolutezza degli stati membri, ma anche dall’incompletezza del progetto europeo.

 

Nel primo corso di macroeconomia si insegna che in politica economica ci sono due strumenti: la politica fiscale e la politica monetaria. Al momento, l’area euro è governata solo da una gamba monetaria, per fortuna piuttosto solida. La Banca centrale europea, soprattutto con Mario Draghi, è riuscita a rispondere in maniera piuttosto creativa alle sfide che poneva la crisi attraverso programmi di acquisto titoli, immissione di liquidità e tassi negativi. Ancora troppo poco, dicono i critici. In ogni caso moltissimo rispetto alla mancanza quasi totale di una vera e propria politica fiscale europea (il budget europeo, meno dell’uno per cento del pil continentale, è troppo piccolo e già tutto predeterminato). Cambiare verso all’Europa significa dotarla di questo strumento base della politica economica e non solo cambiare la griglia di regole.

 

Vaste programme per soli sei mesi. Ma oggi si stanno definendo gli orientamenti e le politiche dei prossimi cinque anni. E allora è necessario andare al di là del contingente e pensare un po’ più in grande per costruire l’unione economica oltre a quella monetaria. In particolare serve una qualche forma di redistribuzione tra paesi che attenui crisi nazionali che una politica monetaria unica non può regolare. Il governo lo ha scritto chiaramente in un documento politico che ha consegnato Herman Van Rompuy prima del vertice di giugno, lanciando anche la proposta di un sussidio europeo di disoccupazione.

 

[**Video_box_2**]L’idea è di avere un fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione che si attiverebbe nei momenti di crisi per aiutare i paesi in difficoltà evitando che siano costretti ad aumentare il deficit, mettendo a rischio la fiducia dei mercati. Questa proposta avrebbe il vantaggio, chiave, di evitare trasferimenti permanenti. Dal 1999, anno di entrata in vigore della moneta unica, a oggi vi avrebbero beneficiato prima la Germania, il Belgio e l’Olanda e solo durante la crisi Spagna, Francia e Italia. Una assicurazione europea contro la disoccupazione porterebbe anche a una maggiore integrazione dei mercati del lavoro nazionali, ancora molto chiusi per ostacoli linguistici e burocratici, nonostante l’abbattimento delle frontiere. Infine, ed è un particolare da non sottovalutare, questa proposta darebbe un volto sociale all’Unione europea.

 

A prima vista potrebbe sembrare una boutade vetero-assistenzialista. Invece la sostiene da tempo Harold James, storico di Princeton, che ha studiato la creazione dell’euro accedendo direttamente agli archivi della Bce. Rendere unico e omogeneo il regime pensionistico e di assistenza ai disoccupati, disse lo storico in una intervista di un anno fa proprio a questo quotidiano, “completerebbe per davvero il mercato unico europeo. (…) Un sistema di sicurezza sociale comune su scala europea, magari complementare a quelli nazionali, garantirebbe quella flessibilità di cui c’è bisogno e funzionerebbe anche come un utile stabilizzatore automatico”. L’idea è stata ripresa anche dal più Chicago-boy degli italiani, Luigi Zingales, sia nel suo ultimo libro, sia più recentemente sul Sole 24 Ore. Il Tesoro francese ha scritto un paper dettagliato al proposito, quello italiano lo ha inserito nel programma di presidenza. Il Commissario europeo all’Occupazione, László Andor, ci lavora da mesi.

 

Il diavolo ovviamente si nasconde nei dettagli e la discussione tecnica è lontana da un disegno chiaro. Ancora si discute se la soglia per far scattare l’assicurazione europea debba essere alta (quindi solo in caso di crisi catastrofiche come quella attuale) o bassa (creando quindi una sorta di Inps europea). Ma politicamente è bene che si cominci a parlarne per cambiare prospettiva, per passare da una griglia di regole (più o meno flessibili) a strumenti concreti di azione.

 

Poi c’è la carta degli “accordi contrattuali” Ovviamente non è realistico pensare che nel semestre italiano si possa far altro che lanciare l’idea sul tavolo europeo. Ma si può fare anche qualcosa di concreto già a ottobre quando i capi di stato e di governo si ritroveranno a discutere ancora una volta degli accordi contrattuali, cioè delle intese bilaterali tra l’Unione europea e i singoli stati per dare degli incentivi in cambio di riforme. Ancora uno strumento ad hoc, non automatico, anzi piuttosto laborioso. Però se ben fatto potrebbe aiutare a fare un salto verso una vera unione economica. La versione più semplice di accordo si limiterebbe a concedere più flessibilità nei parametri di bilancio in cambio di una riforma. La versione più innovativa, invece, prevederebbe che gli accordi contrattuali fossero finanziati da un fondo europeo comune così da costituire, almeno in nuce, il primo nucleo di capacità fiscale che potrebbe poi svilupparsi in uno strumento di stabilizzazione. Sei mesi passeranno in fretta, ma possono lasciare il segno. A patto che l’agenda non sia dominata né dal contingente né dalle utopie, ma mostri una pragmatica veduta lunga.