Mario Draghi (Foto Ap)

Banchieri da combattimento

Draghi fa l'amerikano, ecco i soldi per il credito. I falchi stiano tranquilli

Ugo Bertone

Bce inonda le banche di euro, sferza i pigri e si smarca dalla BuBa. Più lavoro in America, la Fed allontana la stretta.

Milano. “I nuovi prestiti alle banche, a condizione che vengano girati a famiglie e imprese, possono arrivare a mille miliardi di euro”, ha detto ieri Mario Draghi a margine dell’incontro mensile del direttorio della Bce, confermando ai mercati che, finalmente, la Banca centrale europea dispone di un bazooka paragonabile a quello usato dalla Federal Reserve per innaffiare di liquidità l’economia inaridita dalla stretta creditizia e che “sparerà” la prima raffica di liquidità – su otto previste – già il prossimo settembre. Un mese dopo il lancio del pacchetto di misure, storico per la portata delle politiche monetarie non convenzionali che adotta, la Bce ha compiuto così un altro piccolo passo verso una una politica “all’americana” per agganciare i segnali della moderata ripresa che emerge nell’Eurozona. Un cambio di pelle sottolineato da una novità significativa: dal 2015, il direttorio della Bce (sei banchieri a Francoforte più governatori e direttori centrali degli Istituti dell’Eurozona) non si riuniranno più una volta al mese all’Eurotower bensì ogni sei settimane, come capita ai colleghi della Federal Reserve. La navicella europea, insomma, merita più autonomia rispetto ai controlli e alle pressioni delle varie “chiese” finanziarie nazionali, Bundesbank in testa. Il caso ha voluto che questa conversione in stile Fed coincida con la diffusione dei dati del mercato del lavoro degli Stati Uniti di giugno, in forte crescita proprio per merito dell’aggressiva politica monetaria praticata dal governatore Janet Yellen. Oltre oceano sono stati creati 288 mila posti di lavoro, molti di più dei 201 mila previsti dagli analisti. Il tasso di disoccupazione dunque cala, e Wall Street, galvanizzata dagli ultimi dati, non teme che la ripresa comporti un aumento dei tassi. Un po’ perché i dati del prodotto interno lordo del primo trimestre, complice il grande freddo dell’inverno, segnalano una crescita negativa (lo 0,7 per cento in meno). E molto perché il presidente della Fed ha ribadito che si parlerà di rialzo del costo del denaro solo quando il tasso di partecipazione al mercato del lavoro tornerà ai livelli pre-crisi.

 

Non sono certo questi i problemi con cui si confronta la Bce. Il livello dei tassi, che resta invariato dopo il taglio del mese  scorso, non ha per ora prodotto grandi frutti sul fronte della ripresa che resta “moderata” o dell’inflazione che, ha dichiarato ieri Draghi, “resterà bassa nei prossimi mesi e si riprenderà gradualmente nel 2015 e 2016”. Ma accanto a queste conferme emergono forti segnali di discontinuità. Il primo, ovviamente, riguarda i quattrini destinati alle banche – purché stavolta li distribuiscano alle imprese, soprattutto piccole e medie, e pensino a rilanciare gli acquisti da parte delle famiglie. Non meno importante, l’impegno esplicito sul fronte dell’euro forte “resta un problema che influenza il nostro obiettivo di stabilità”. E probabilmente le cose non cambieranno finché la Bce non avvierà il Quantitative easing all’europea, ipotesi ribadita da Draghi perché “il consiglio è unanime nel suo impegno a fare ricorso, se necessario, anche a strumenti non convenzionali”. Insomma, ha ripetuto in conferenza stampa il presidente Bce, “il nostro lavoro non è finito, per niente”.

 

Yellen imita Pechino, ai mercati piace

 

La pensa così, sull’altra riva dell’oceano, Janet Yellen, colomba sempre più aggressiva di fronte alle critiche dei falchi. Il presidente della Fed ha colto l’occasione, mercoledì, di un invito alla sede del Fondo monetario internazionale per sfidare le critiche di chi, sia nello stesso Fondo sia nella Banca dei regolamenti (la banca centrale delle banche centrali), invoca una stretta dei tassi per evitare lo scoppio di nuove bolle speculative, in stile 2007-’08. La politica monetaria, ha replicato a muso duro Yellen, va gestita in funzione dell’economia, a partire dall’occupazione e dal reddito. Per evitare le bolle,  se e quando sarà il caso, molto meglio affidarsi a regolamenti più stringenti, a margini iniziali aumentati, o all’obbligo di tenere una certa quantità liquida, iniziative finora più tipiche della Banca centrale cinese che non di quella americana. Ritorna dunque l’interrogativo proposto dall’Economist: con l’ampissimo uso di politiche monetarie non convenzionali, i banchieri centrali sono i cattivi della storia della ripresa globale o sono gli eroi della favola? In altre parole, Yellen e Draghi, quando tentano di sostenere l’occupazione oppure di convincere le banche pigre a concedere più credito, dovrebbero stare più attenti a non aizzare gli appetiti speculativi? La questione è aperta. Per ora entrambi ricoprono con determinazione il ruolo di supplenti di governi e istituti di credito.