Una donna polizziotto israeliana punta un lancia lacrimogeni durante gli scontri con i palestinesi di ieri a Gerusalemme (Foto Ap)

Il prezzo del terrore

Dentro Gaza o demolire case? Israele è incerto nella risposta ad Hamas

Giulio Meotti

Tsahal riprende a distruggere le abitazioni dei terroristi tra le polemiche. Ucciso un ragazzo palestinese a Gerusalemme.

Roma. “Entrare a Gaza o demolire le case dei terroristi?”. E’ la domanda che circola nell’establishment di sicurezza d’Israele nella risposta all’uccisione dei tre studenti, e pure l’incontro di ieri sera è risultato inconcludente. Il governo di Benjamin Netanyahu è diviso sulle misure contro Hamas, mentre a Gerusalemme est esplode la protesta araba dopo il ritrovamento del cadavere di un ragazzo palestinese di 17 anni. “Resta da capire se sia un gesto criminale o nazionalistico”, ha detto il ministro della Sicurezza, Yitzhak Aharonovich. Ma la condanna dell’atto è stata unanime, gli Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione molto dura, anche il governo israeliano ha detto che nessuno deve pensare di poter far giustizia da sé. Il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, e quello dell’Economia, Naftali Bennett, vogliono una operazione militare contro Hamas a Gaza “sulle stesse linee della campagna di Jenin”, che nel 2004 pose fine agli attentati suicidi. Ovvero entrare a Gaza. Altri ministri, per ora maggioritari e guidati da Yair Lapid e Tzipi Livni, vogliono una “punizione mirata” come deterrente per futuri tentativi di rapimento e la fine dei lanci di razzi. Il commento di ieri di Debka serve a capire l’umore dei falchi: “Il bombardamento di edifici vuoti a Gaza darà a Hamas un assegno in bianco per rapire altri israeliani e lanciare missili, non convincerà Abu Mazen a rompere il patto di unità con Hamas e a garantire la sicurezza a un milione di israeliani sotto i razzi”. Il governo ha deciso di peggiorare le condizioni nelle carceri per i prigionieri di Hamas. E valuta la deportazione dei capi del terrore dalla Cisgiordania a Gaza. Il ministero della Giustizia e la Corte suprema hanno dato parere positivo, anche se la Convenzione di Ginevra vieta i trasferimenti. Israele aveva sospeso questa misura persino durante i giorni più sanguinosi della Seconda Intifada. “Se Israele dovesse riprenderla oggi, avrebbe difficoltà a difenderne la legalità”, dice Aeyal Gross, giurista all’Università di Tel Aviv. La deportazione è un’arma a doppio taglio: in esilio, i capi del terrore sono più liberi di organizzare attentati, senza la vigilanza dello Shin Bet. Per adesso, ci si concentra così sulla demolizione delle case.

 

Ieri l’esercito è tornato a usare le ruspe contro le case dei terroristi. Non accadeva dal 2005, quando un documento dell’esercito le reputò “controproducenti e illegali”. Ieri è stata demolita la casa di Ziad Awad, il terrorista che ha ucciso Baruch Mizrahi lo scorso 14 aprile. Poi è saltata in aria la casa di Marwan Kawasme, uno dei terroristi di Hamas accusati di aver ucciso i tre ragazzi israeliani. Come ha detto Joel Singer, già consulente legale dell’esercito, “alla fine della giornata, qualunque cosa tu faccia, devi bilanciare legalità e deterrenza, in modo da avere la botte piena e la moglie ubriaca”. La politica di abbattimento delle case fu avviata dall’ex premier Yitzhak Rabin, che disse: “Chi ci attacca deve sapere che mette a repentaglio la sua famiglia”. Israele ha demolito 669 case finora come punizione per attacchi terroristici, fino a quando la pratica è stata interrotta nove anni fa. Allora il ministero della Difesa, su suggerimento del generale Udi Shani, disse che le demolizioni non avevano un effetto deterrente ma anzi, fomentavano odio.

 

Il sostegno economico al terrore

 

Non è d’accordo il governo Netanyahu. “C’è un intero sistema di sostegno economico per il terrorismo”, ha detto ieri un funzionario del gabinetto di Sicurezza. “Una casa può essere ricostruita, ma livella un po’ il campo da gioco”. L’esercito ha descritto la demolizione delle case come “un messaggio ai terroristi: il prezzo sarà pagato da tutti”. Famiglie comprese. Shai Nitzan, che ha difeso le demolizioni presso la Corte suprema, ha affermato che “la famiglia è un fattore centrale nella società palestinese” e colpirla scoraggia i terroristi. Spiega Daniel Byman, autore di “A high price”, “il dolore delle distruzioni di case è considerevole. In una zona povera, perdere una casa significa perdere tutto”. Ma per il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, le demolizioni sono efficaci solo se Israele controlla il territorio. Altrimenti i gruppi armati ricostruiscono una casa più grande per la famiglia, e il presunto deterrente diventa un incentivo. Il danno di immagine per Israele è alto. Il ministro della Giustizia Yosef “Tommy” Lapid, padre dell’attuale leader politico Yair, disse: “Ho visto in televisione una vecchia tra le macerie della sua casa a Rafah alla ricerca di una medicina. Mi ha ricordato mia nonna cacciata di casa durante l’Olocausto”. Così spesso Israele anziché demolire le case, le riempie di mattoni e malta, rendendole inutilizzabili.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.