Lo stabilimento dell'Ilva (Foto Ap)

Ubs invoca la fine dell'Ilva per salvare l'acciaio europeo

Alberto Brambilla

Mentre Renzi si aggrappa ad ArcelorMittal, la banca svizzera spera nel collasso di Taranto per la gioia dei suoi concorrenti.

    Roma. Mentre il governo sta cercando di coinvolgere il più grande gruppo siderurgico del mondo, ArcelorMittal, nel salvataggio dell’Ilva – permettendo ai suoi delegati di ficcanasare negli stabilimenti di Taranto per constatare lo stato dei tubifici, degli altiforni e somministrare puntigliosi questionari ai dirigenti – un rapporto della banca svizzera Ubs si premura di calcolare i benefici della chiusura dello stabilimento tarantino a vantaggio dei suoi principali concorrenti europei. “Il futuro dell’Ilva, il destino dell’industria siderurgica europea” è il titolo di un rapporto riservato appena pubblicato nel quale lo specialista Carsten Riek ipotizza la chiusura parziale o totale del più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Sarebbe questa la soluzione al problema della sovracapacità produttiva nel continente, dove gli impianti sono in eccesso rispetto alle esigenze del mercato. Un’ipotesi choc di cui si parlava molto due anni fa quando la procura aveva imposto i primi sequestri degli impianti Ilva, poi scongiurati dalla Cassazione (“provvedimento abnorme”). Profezie di sventura ora tradotte in cifre da Ubs. “Sarà una cattiva notizia per i dipendenti – dice il rapporto con un certo cinismo – ma a beneficiarne saranno tutti gli altri”. Come? Contando che il mercato soffre di una sovracapacità strutturale stimata in 20 milioni di tonnellate, la chiusura parziale dell’Ilva – la metà degli impianti, come suggerito anche dal presidente della commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti – ridurrebbe lo scarto del 20-30 per cento. Mentre con una chiusura totale – che libererebbe il mercato dal potenziale dell’Ilva che è di 11,2 milioni di tonnellate – lo scarto si ridurrebbe del 58 cento, con ovvi benefici sulla redditività degli altri produttori europei e, sottointeso, delle rispettive banche creditrici. A beneficiarne più di tutti sarebbero i tedeschi di Salzgitter e a seguire le scandinave Rautaruukki e Ssab e l’austriaca Voestalpine. E la franco-indiana ArcelorMittal dovrebbe comprare? Ubs, che fu consulente strategico per Arcelor prima dell’acquisizione da parte degli indiani di Mittal del 2006, è scettica: oltre ai rilievi dell’Antitrust europeo – una fusione porterebbe il nuovo gruppo a controllare il 40 per cento del mercato continentale – ArcelorMittal “avrebbe benefici solo nel lungo periodo”.

     

    [**Video_box_2**]Nell’immediato, infatti, dice Ubs, un acquisto parziale o totale delle quote peserebbe “considerevolmente” sui conti. E poi qualunque “potenziale compratore dovrebbe avere la garanzia europea che il mercato rimanga imperturbato durante il processo di ristrutturazione” che significa limitare le importazioni. Ubs lancia un sasso pesantissimo sul mercato consapevole che l’ipotesi di chiusura parziale o totale dell’Ilva per quanto “desiderabile è improbabile nell’immediato” perché ci sono gli interessi delle parti coinvolte: dai Riva, agli 11.000 dipendenti, alla politica che per quanto tentennante, prima all’inseguimento della magistratura e poi con la staffetta tra i commissari, Enrico Bondi e ora Piero Gnudi, ex presidente Enel, dovrebbe affrontare un tracollo nazionale (costo un miliardo di euro, dice Ubs). Senza contare gli altri acciaieri italiani, come il gruppo Marcegaglia, che aveva facilitato i colloqui con ArcelorMittal, e potrebbe avere interesse negli impianti del gruppo Ilva a Cornegliano e Novi Ligure. Insomma, se i concorrenti internazionali congiurano contro l’Ilva, gli attori italiani avrebbero tutta la convenienza a contrastarli ma “serve un’azione immediata”, chiosa la banca svizzera.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.