Il morso più veloce del mondo, Abdujaparov "Tashkent Terror"

Giovanni Battistuzzi

Abdu era simpatico e veloce, disposto a tutto e matto, ma a modo suo, figlio del detto “se passano le spalle passa anche tutto il resto”

Lanciarsi a oltre 60 all’ora su ruote di 23 centimetri di larghezza è già difficile, farlo in mezzo a oltre cento persone, 30 delle quali hanno il tuo stesso obbiettivo, vincere, diventa folle, almeno apparentemente. Sono le volate, bellezza; quintessenza della pianura, monumento del ciclismo. C’è chi preferisce farsi lanciare, sfruttare la scia di quattro-cinque passistoni che tagliano il vento e ti portano a 150 metri dal traguardo davanti a tutti e chi invece si esalta nella lotta, nel corpo a corpo, perché in questo sport si è su di una bici, d’accordo, ma nella bagarre della volata gli avversari li si tengono a distanza anche con le spalle, le anche, le mani.

 

In questo il maestro era Djamolidine Abdoujaparov, uzbeko di Tashkent, di professione sprinter tignoso e rognoso, “Tashkent Terror”. Abdu era simpatico e veloce, disposto a tutto e matto, ma a modo suo, figlio del detto “se passano le spalle passa anche tutto il resto” (nel senso che se trovi uno spiraglio per superare un corridore nel quale passa il manubrio, allora passerà pure la bici). Questo concetto l’aveva fatto suo, ne aveva fatto uno stile di vita. Se c’era da spingere, spingeva, se c’era da combattere, combatteva, scalpitava, lottava. Ogni tanto mordeva. Sì, a 60 all’ora, sulle spalle o dove capitava, così per avvertire, così per tenere distanti i rivali, i morsi più veloci di sempre. Perché per lui valeva solo una regola, “in volata bisogna farsi rispettare e io lo faccio”. E poco importa i modi, sono ciclisti, mica lord.