Gli stati sovrani devono poter fallire (senza drammi). Il Fmi s'attrezza

Domenico Lombardi

Cosa accadrebbe oggi se ci trovassimo di nuovo nella situazione del 2010, con la Grecia sull’orlo del collasso finanziario e il rischio che Atene trascini nell’abisso della bancarotta altre economie dell’Eurozona, Italia inclusa?

Cosa accadrebbe oggi se ci trovassimo di nuovo nella situazione del 2010, con la Grecia sull’orlo del collasso finanziario e il rischio che Atene trascini nell’abisso della bancarotta altre economie dell’Eurozona, Italia inclusa? Riproporrebbe il Fondo monetario internazionale (Fmi) lo stesso pacchetto di aiuti alla Grecia, il più grosso mai erogato a un paese membro nei suoi settant’anni di storia, in deroga al quadro regolamentare che l’istituzione si era data sino ad allora? La risposta, oggi, è “no”. E’ quanto si ricava da un documento appena reso noto a cui lo staff di Pennsylvania Avenue ha lavorato con il massimo riserbo per diversi mesi. Il Fmi ora sostiene che esistono tre categorie di paesi sotto stress che richiedono il suo intervento: quelli con debito sostenibile, quelli con debito non sostenibile, e una categoria intermedia per la quale la sostenibilità del debito è semplicemente incerta.

 

Nel primo caso, l’intervento del Fmi è simile a quello prescritto dai manuali: l’organizzazione internazionale eroga un prestito a patto che il paese accetti di adottare riforme correttive che pongano la sua economia su un sentiero di crescita sostenuta. Nel secondo caso, l’intervento della comunità internazionale va necessariamente subordinato alla ristrutturazione del debito – quindi a perdite da infliggere ai creditori – perché l’economia possa riprendere stabilmente fiato e tornare a crescere. Nella categoria intermedia, stante l’incertezza, è difficile stabilire l’intervento appropriato. Optare per una ristrutturazione del debito che ex post si rivelasse non necessaria, equivale a imporre sul paese un costo eccessivo per una terapia inutilmente invasiva, senza considerare gli effetti di un possibile contagio che la ristrutturazione può provocare a danno di altri paesi. D’altro canto, se si decide per una posizione attendista, si vanifica l’efficacia del programma di stabilizzazione prolungando inutilmente gli effetti negativi della crisi sull’economia, qualora il debito dovesse essere effettivamente insostenibile.

 

Quest’ultimo è esattamente il caso della Grecia di quattro anni fa. Allora il Fmi prevedeva che il rapporto debito pubblico/pil sarebbe salito al 149 per cento nel 2013. Un valore elevato e che comunque si è rivelato di ben 27 punti percentuali al di sotto di quello poi effettivamente realizzatosi. Il ritardo nella ristrutturazione del debito greco, avvenuta nel 2012, ha infatti consentito agli investitori privati che di ridurre la propria esposizione sul debito di Atene, spostando l’onere sui contribuenti europei – Banca centrale europea e due Fondi salva stato hanno nel frattempo acquistato bond greci – che oggi detengono la stragrande maggioranza dei titoli del debito greco. Per la Grecia un’azione più tempestiva sul debito avrebbe consentito un aggiustamento fiscale meno aggressivo e una contrazione del reddito aggregato meno pronunciata. Ma quale intervento sarebbe stato appropriato? Probabilmente una ristrutturazione vera e propria poteva persino essere evitata se la Troika avesse optato per un immediato riscadenzamento del debito, ovvero un congelamento nei pagamenti per un periodo non lungo, così da allentare la morsa del servizio del debito mentre le autorità cercavano di ridare fiato all’economia in affanno. In effetti, riconosce adesso il Fmi, un riscadenzamento del debito greco sarebbe stato preferibile alla ristrutturazione poiché, nel maggio 2010, l’Eurozona era vulnerabile al contagio. A quel tempo, infatti, gli europei non avevano ancora introdotto argini sistemici come il Fondo salva stati e, soprattutto, il programma Outright monetary transactions (Omt) di acquisto potenzialmente illimitato di titoli di stato da parte della Bce. In quel contesto, il riscadenzamento avrebbe presentato minori conseguenze in termini di contagio.

 

Concettualmente, l’approccio proposto dal Fmi assomiglia, come anticipato sul Foglio nei mesi scorsi, a un surrogato di natura istituzionale delle obbligazioni “coco”. In uno studio congiunto della Banca centrale canadese e della Banca d’Inghilterra, infatti, si propone l’introduzione di obbligazioni rispetto alle quali l’emittente sovrano può invocare una temporanea sospensione nei pagamenti per un tempo non lungo, qualora si trovasse costretto a richiedere l’assistenza del Fmi. La differenza è che, in attesa di una loro eventuale diffusione, l’istituzione di Washington ne dispenserebbe i relativi costi e benefici. In questo ambito, i vertici del Fmi intendono poi eliminare una clausola che consente di prestare a un paese membro di “importanza sistemica” anche quando il suo debito non abbia una “elevata probabilità di essere sostenibile”. Tale clausola, approvata contestualmente al pacchetto di aiuti per la Grecia, consente oggi al Fmi di prestare anche ammontari rilevanti a economie che il Fmi ritiene particolarmente “interconnesse” col resto dell’economia. Se la clausola, che fornisce una discrezionalità eccessiva nelle decisioni di prestito, venisse modificata in senso restrittivo, come gli azionisti extra-europei richiedono, l’enfasi nella gestione delle crisi si sposterebbe ancora di più sui meccanismi di coinvolgimento del settore privato.

 

[**Video_box_2**]Del resto, l’importanza di un’àncora internazionale nella gestione delle crisi sovrane è testimoniata proprio in questi giorni dall’attenzione con cui il Tesoro americano – sempre a Pennsylvania Avenue – sta seguendo, sconcertato, la decisione della magistratura americana di ignorare i termini della ristrutturazione del debito che l’Argentina negoziò con i suoi creditori nel decennio scorso, imponendo a Buenos Aires di pagare contestualmente anche i creditori che si sono tenuti fuori da tale accordo. Il timore è che questa sentenza possa diminuire, in futuro, l’incentivo dei creditori a cooperare per una soluzione condivisa nelle crisi sovrane, scaricando il peso dell’aggiustamento sull’erario nazionale e internazionale. E’ stata proprio questa, del resto, la scommessa di un fondo americano che, all’apice della crisi ucraina, ha fatto incetta del 20 per cento del debito pubblico di Kiev, contando sulla pronta assistenza della comunità internazionale che, sinora, è arrivata puntuale.
Domenico Lombardi

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