La partenza dell'Italia dal Brasile

Dannati a Mangaratiba, cronache dal bus che portava l'azzurro

Pierluigi Pardo

La nazionale italiana è tornata in patria dopo il fallimento ai mondiali brasiliani. Storia di 19 giorni al Portobello Safari Resort tra polemiche, scontri verbali tra senatori e nuove leve, dimissioni, gelosie e rivalità. Con Balotelli sullo sfondo.

Quando in un umido pomeriggio di fine giugno, alle quattro della tarde, il pullman della Nazionale con la scritta “Coloriamo d’azzurro il sogno Mondiale”, lascia il Portobello Safari Resort al suo destino di terra e mare, sdraiato di fronte a Ilha Grande, al chilometro 436 della strada statale Rio de Janeiro-Santos, il segno della sconfitta, nera e nuda, appare evidente. Troppo presto, troppo male. Erano arrivati in questo pezzo di Brasile diciannove giorni fa, carichi di speranze e dubbi anche, rincuorati comunque dal solito corredo di luoghi comuni italici (la squadra che non molla mai, quella difficile da battere per tutti, la mina vagante del Mondiale e altre sciocchezze).

 

La mattina del 6 giugno quando il pullman era entrato nel resort, c’era un bel vento fresco. Prandelli era un manager con poteri crescenti, Abete un sovrano inscalfibile e Balotelli un potenziale crac pronto a vivere il Mondiale della sua definitiva consacrazione. Com’è andata, lo sappiamo tutti. Tre partite, due sconfitte, appena un paio di gol fatti, molti rimpianti, stracci che volano ovunque, anche sul web, due dimissioni in un giorno (record di sempre nella storia d’Italia).

 

Logico, perché a Mangaratiba non ha funzionato nulla. Il ct, cui deve essere comunque riconosciuto come punto d’onore l’aver stracciato un ricco contratto già firmato, ha vissuto un anno orribile, una sola vittoria da settembre a oggi (quella contro Rooney). Ha cambiato mille volte idee e moduli. Ha fatto scelte impopolari al momento delle convocazioni (che senso aveva portare a Coverciano e illudere Rossi se non aveva possibilità?). Ha lasciato a casa prime punte vere (Destro, Toni) che potevano essere utili nei finali disperati con Costa Rica e Uruguay, per far salire sull’aereo Insigne e Cerci quasi inutilizzati. Ha riportato nel gruppo Cassano ma senza mai dargli una possibilità vera (mai titolare e sempre fuori ruolo). Solo alla terza partita su pressione dei senatori ha scelto la difesa a tre, certamente più compatta, e sempre su spinta esterna, soprattutto mediatica, ha messo in campo contro l’Uruguay una coppia di attaccanti piuttosto insensata e nella quale lui stesso non credeva. La più illogica e improbabile.

 

Soprattutto Prandelli si è affidato mani e piedi a Balotelli e gli ha consegnato le chiavi dell’attacco. Quello di Mario è il vero fallimento, al di là della buona prestazione con l’Inghilterra e della difesa d’ufficio di Galliani che ha un suo fondamento ma non basta. Balo ha segnato e giocato bene la prima partita, è vero, ma poi è sparito. Doveva essere la nostra differenza, il nostro trascinatore. C’erano tutte le condizioni per farlo. Personali e tecniche. Aveva pure cominciato bene. C’era l’ottimo feeling con i brasiliani. Con i compagni di squadra molto meno. Realtà apparsa evidente con il clamoroso scazzo all’intervallo del match con l’Uruguay.

 

I senatori, Buffon e De Rossi a fine partita nelle dichiarazioni l’hanno “toccata piano”. Non lo volevano, non così almeno, come una star (soprattutto) mediatica. Che il giorno dopo il fallimento invece di stare in silenzio contrattacca su Instagram, mescolando le critiche tecniche ricevute con qualche imbecille insulto para-razzista (per il quale ovviamente non ci sarà mai giustificazione). 

 

[**Video_box_2**]Ai suoi compagni di squadra non sono piaciuti i tweet provocatori, le discussioni animate con Fanny, la scarsa disposizione al sacrificio in campo e il solito difficile inquadramento tattico.

 

In più la scelta di Balotelli come totem assoluto e irrinunciabile, sempre titolare, ha creato mugugni tecnici. Immobile è rimasto nell’ombra fino all’ultimo match, Cassano (che poteva essere utile da seconda punta proprio con un centravanti più tradizionale come Ciro) è rimasto in una specie di placida depressione, senza cassanate (la leggenda di un bicchiere rotto con rabbia è stata smentita seccamente dalla federazione) ma senza allegria, come se questa non fosse la sua squadra, e quando è entrato non ha certo brillato.

 

Un inferno, insomma, Mangaratiba. La scelta dell’isolamento non ha pagato. Vedere gli olandesi palleggiare in spiaggia fa impressione. Il nostro ritiro blindatissimo verso l’esterno ma aperto a mogli e famiglie non ha funzionato. Le voci di dentro raccontano di gelosie, rivalità, piccoli privilegi concessi ad alcuni e negati ad altri. Sfilate di moda in tacco 12 già all’ora della colazione, corridoi che collegavano i due settori dell’albergo teoricamente interdetti al traffico ma in realtà intasati come la tangenziale all’ora di punta. Il livello di concentrazione non è stato all’altezza, e anche in questa circostanza si è vista la differenza tra uomini e bambini. Professionisti e villeggianti.

 

Adesso è il giorno zero del calcio italiano. Semplicemente è tutto da rifare. Da azzerare, magari da rottamare renzianamente. Unica possibilità per trasformare il gol di Godín in una ripartenza. Complicata ma possibile.