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Giocare sulla sinistra

Stefano Di Michele

Ci doveva provare col compagno Togliatti, il (non) compagno Renzi. Alle Frattocchie per un ripasso, lo rimandava. A raccattar palle a bordo campo (del partito), lo spediva.

Ci doveva provare col compagno Togliatti, il (non) compagno Renzi. Alle Frattocchie per un ripasso, lo rimandava. A raccattar palle a bordo campo (del partito), lo spediva. I senatori povericristi – già di loro, secondo riforma e politicamente parlando, “in articulo mortis”, volendo in “zona Cesarini” – inchiodati dentro l’Aula di Palazzo Madama: ché nelle orecchie fischia il semestre europeo, ma soprattutto squilla l’arbitro che a Natal avvia la disfida nostra con l’Uruguay. Pirlo o Juncker – figurarsi, c’è da discuterne? Il tifoso Renzi, che la Fiorentina ha più cara persino di Delrio, e che con Prandelli ingoiò apposita banana antirazzista, stavolta l’ha fatta grossa: abolire Giovanardi pazienza, cancellare Marchisio è più complesso. In campo (sportivo), nonostante il recente recupero delle feste dell’Unità, e il supporto logistico/ideologico di Orfini, l’inesperienza si è vista tutta. Mai, la meglio politica, a sinistra era andata contro il pallone. Questione di cuore, a volte. Questione di masse, sempre. Togliatti, si diceva. Una volta chiese i risultati di una partita a Pietro Secchia. Il quale, ovviamente, li ignorava. Il Migliore sbarrò gli occhi, e impartì rapida lezione di tecnica politica al più sovversivo e bolscevico di Botteghe Oscure: “E tu, pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?”. Persino dopo l’attentato, al risveglio dall’operazione, raccontano, per prima cosa chiese: “Cos’ha fatto la Juventus?”. Ecco: non si dà rivoluzione senza colpo di pallone. Il socialismo col compagno è gran bella aspettativa, ma col capitano Boniperti è meglio. Lo stesso, c’è sempre una parte (minoritaria) a sinistra che sulle masse pallonare il nasino aristocratico storce, e lo stomaco si turba rispetto al defilarsi delle masse dal rigore della lotta per il rigore di Balotelli.

 

Storia vecchia. Per esempio, ecco che salta fuori una curiosa intervista, nel trionfale 1975, di Enrico Berlinguer a Tuttosport. Già il titolo diceva tutto: “Lo stadio non è oppio”. E spiegava, ai lettori/compagni/elettori sportivi, il segretario comunista: “Non sono d’accordo con quegli intellettuali, diciamo pure intellettuali di sinistra, che, un po’ schizzinosi, criticavano, o criticano ancora, lo sport a livello di spettacolo, come strumento di alienazione delle masse. Non penso che l’operaio, se alla domenica va allo stadio, il lunedì sia meno preparato ad affrontare i problemi del lavoro, le battaglie sindacali”. E come Togliatti prima di lui, allo stadio ci andava. Juventino, giurano tutti, “ah, Cuccureddu…”. “Tifava Cagliari”, assicurano certi compagni. Una volta gli dissero: “Sappiamo che lei è un tifoso juventino”, e lui, secco: “Nooooo, io tifo la Torres!”.

 

Vezio, il barista dietro Botteghe Oscure che la mattina gli preparava il caffè: “Era juventino, ma la sua scorta, me lo ricordo bene, era tutta di fede laziale, e così era costretto ad andare a vedere, allo stadio, le partite della Lazio”.

 

Un vero compagno dirigente, più di uno sgarzolino fiorentino, sa quanto la palla vale. Forse meno adesso, nella gloria rumorosa della politica spettacolo, che nel rigoroso  bianco/nero della Prima Repubblica. Persino Armando Cossutta per l’Inter in campo sospendeva il lavoro rivoluzionario – così Teo Teocoli ne faceva l’imitazione a bordo di una proletaria Cinquecento mentre annunciava: “A tutti i compagni! A tutti i compagni! Alle 21, a San Siro, per un intervento del compagno Sandrino Mazzola!”. Curiosamente, molti capi del comunismo italiano tifavano la Juve di Agnelli. Anche Luciano Lama allo stadio stava con i bianconeri, “sono romagnolo, i romagnoli sono tutti juventini” – e sulla Stampa, a seguito di dispute sportive, gli scrisse una lettera aperta l’Avvocato: “E’ abitudine della Juventus dire e credere che quando le cose vanno bene il merito è dei giocatori, quando vanno meno bene la responsabilità è della società”. Juventino, a parte la momentanea debolezza di una sciarpa giallorossa da sindaco di Roma, è sempre stato Veltroni. “Il mio museo dell’anima”, disse ispirato – in rassegna di facce, maglie, memorabili azioni. E Fausto Bertinotti, accanito milanista (dal Cav., in diretta a “Porta a Porta”, ebbe quale dono l’orologio del centenario della squadra), ha trovato la possibilità di una perla di saggezza proprio sospirando dietro il pallone rossonero: “Le squadre di calcio sono tutte dei padroni. E se proprio devo scegliere un padrone, meglio uno che mi fa vincere il campionato”.

 

Poi, da passione, a sinistra il calcio è sempre più diventato metafora d’altro. Al romanista Massimo D’Alema, incantato davanti a Rudi Garcia, fu chiesto (quando ancora c’era da chiederlo) se volesse candidare il prezioso allenatore a guida del Pd. “Eh, magari – fu la risposta, feroce e azzardata – Ma è una carica meritocratica, quella?”. E il suo antico discepolo Matteo Orfini, oggi presidente del partito orbo della guida di Garcia e in gloria sotto quella di Renzi, verticalizza quest’altra allegoria: “Il Pd è oggi come Andrea Pirlo: costruisce il gioco, entra e finalizza”. Boh. Pirlo comunque sta appunto per scendere in campo. E in aula, bla-bla-bla, c’è chi si sente un po’ pirla.

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