Il “Trionfo della Morte” sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, dipinto nel 1485 da Giacomo Borlone de Buschis, domima la valle in cui s’è svolta la tragedia di Yara Gambirasio

Danza macabra con Dna

Marco Barbieri

Yara, danni collaterali di un’indagine suggestiva. Lo screening di un’intera valle e un pezzo di vita sociale, la famiglia coi suoi legittimi segreti, come capro espiatorio.

Tanto per cominciare diciamo che a Clusone, uno dei paesi della Val Seriana di cui tanto si parla in queste settimane, c’è uno dei più affascinanti affreschi esterni della storia dell’arte medioevale italiana. Il “Trionfo della Morte”, all’Oratorio dei Disciplini, sta in cima al colle dal quale la basilica di Santa Maria Assunta domina la valle. Come a dire che da queste parti c’è ancora – non morta, non soffocata da tutta la vita moderna che le è cresciuta sotto – la memoria antica di una profonda abitudine a sentire e vedere (la forza delle immagini!) “nostra sorella morte corporale” come frequentatrice della vita ordinaria e quotidiana.
La tragedia della morte diventa trionfo, danza macabra, che fa dire alla “regina” del mondo terreno, in uno dei cartigli che fanno da didascalia alle immagini murali della fine del Quattrocento: “Non è omo così forte che da mi non po’ schapare”. Giuseppe Guerinoni era un uomo forte, un uomo con la U maiuscola, come racconta a un giornale della zona un vecchio amico, Antonio Negroni, anche lui classe 1938. Negroni ricorda Guerinoni come uno di quelli che sono simpatici, lavoratori, capaci di vivere le giornate in sintonia con lo spirito vitale. Ma nemmeno lui è “schapato” alla Morte. La sua falce lo ha reciso nel 1999. Ha lasciato una vedova, Laura Poli, e tre figli. Oppure cinque?

 

La morte corporale lo ha raggiunto, ma la sua vita – per i credenti nel Dio padre di Gesù Cristo, la vita, anche dei morti, dura fino alla Parusia, altrimenti perché pregheremmo per i nostri defunti? Nulla è ancora definitivamente concluso – quella più banale, che si prolunga nel tempo con i suoi resti mortali, è proseguita, attraverso la saliva sulla marca da bollo di una patente. Fino a giustificare l’esumazione delle sue ossa quattordici anni dopo il suo funerale, non per una danza macabra prima della Resurrezione, ma per una tragica ricerca di identità passata.

 

E già lì è stato oggetto di violenza. Una violenza contro le famiglie. Violenza contro di lui personalmente e contro i suoi familiari noti di allora. La moglie, i figli legittimi, la sorella Vittoria (la penultima degli undici fratelli). Tutti, vivi o morti, travolti da una vicenda terribile della cronaca di questi anni. L’omicidio di una ragazzina, Yara Gambirasio, scomparsa nella sera del 26 novembre 2010. Il corpo della giovane vittima viene ritrovato tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011. Sui suoi indumenti una traccia biologica di un uomo. Una volta individuata e isolata comincerà la storia di “Ignoto 1”.

 

Tra una puntata di “Cold case” e una di “Csi” la realtà si avventa più forte e creativa di una fiction televisiva. Agli stessi occhi degli investigatori si manifesta la traccia inequivocabile del presunto assassino. La firma genetica di quello sconosciuto che ha abbandonato il corpo di Yara, dopo averla rapita, abusata, ferita e uccisa.

 

[**Video_box_2**]Ma questa è la storia del Male che ha preso possesso di un uomo, e ne ha fatto il suo dominio per quasi quattro anni. Fino a oggi. Visto che non abbiamo un reo confesso. Il Male non è solo quello che recide una vita, ma è ciò che rende quotidiana e banale la convivenza con quella uccisione. Come in altre circostanze ha detto bene Andrea Casalegno, non si può mai diventare ex assassini. Il Male è proprio questo: la convivenza abituale con l’assassinio perpetrato. E’ il delitto senza castigo di Dostoevskij e quello di Woody Allen in “Match Point”. Non conta più la motivazione (l’impeto, l’ira, la passione, il furto) ma la possibilità di convivere con la morte provocata, senza avere il bisogno di redimersi, con o senza Dio.

 

Ma non c’è solo questo Male maiuscolo e terribile, che accompagna la vita degli uomini. Mister Hyde non è mai altrove. E’ dentro di noi.

 

C’è anche quel piccolo e mostruoso male che si genera e si procura con le migliori intenzioni. Con la professionalità e la caparbietà di un’indagine motivata e determinata. In qualche modo è un male che non sopporta la morte, e che per vendicarla è disposto a tutto.

 

Vendicare la morte è un sentimento persino nobile, finché non guarda in faccia le nuove vittime.
E’ difficile osare di mettere in fila altre vittime, oltre alla famiglia Gambirasio. Eppure l’indagine del pm Letizia Ruggeri, indagine coraggiosa, vertiginosa, “pazzesca” (come ha dichiarato lo stesso magistrato) ha fatto altre vittime. Danni collaterali. Necessari?

 

Che bisogno c’era di dare informazioni dettagliate e nominative del percorso delle indagini tra ottobre 2011 e giugno 2014?
Nell’ottobre di tre anni fa emerge la notizia dell’identificazione di quella firma genetica che fa sobbalzare gli inquirenti. E’ come aver trovato il fotogramma in cui si vede il profilo dell’omicida. Anzi, di più. E’ come se si vedessero i suoi occhi, la sua capigliatura, il disegno dell’ovale del viso, la statura. Con tutte queste informazioni è difficile accettare di considerare irrisolto il caso. E’ insopportabile l’idea che quell’uomo così ben identificato non abbia nome e possa continuare una vita impunita, signoreggiata dal Male.

 

Ecco che nell’ottobre 2011 inizia a vivere il fantasma di “Ignoto 1”. C’è il Dna di un uomo senza identità. La catena dell’acido desossiribonucleico è la condizione necessaria per progettare clonazioni, che la fantascienza ci aveva detto possibili e che la scienza ha reso reali. Gli inquirenti, accompagnati da uno staff scientifico di eccezione potrebbero ricreare in laboratorio un bambino, un uomo, uguale all’assassino. Ma avrebbero una copia senza nome. Un duplicato criminale senza la possibilità di identificazione. E’ come avere le impronte digitali di un assassino senza precedenti penali, incensurato.

 

La sfida contro il Male si scatena. Impossibile accettare di avere la firma di un mostro e non poterla accoppiare a una identità. Scatta un’operazione che forse è senza precedenti – in criminologia e in giurisprudenza – la schedatura genetica di un intero territorio, confidando nel fatto che la dinamica dell’omicidio debba portare a un assassino indigeno. La mobilità nella provincia di Bergamo non è trascurabile, lo si era capito, quando si mise nel mirino il piastrellista marocchino Mohamed Fikri. Eppure la possibilità di sconfiggere il Male produce a volte nuove risorse. Persino il buon senso. E si sottopone a indagine del Dna tutti coloro che in qualche modo avrebbero potuto verosimilmente incontrare o frequentare Yara.

 

Ed è nel marzo del 2012 che emerge per la prima volta il cognome Guerinoni. Ma non si tratta ancora del defunto Giuseppe. Ma di un suo nipote: Damiano. Giovanotto che insieme ad altri viene “censito” non come sospettato, ma come oggetto di uno screening di massa, che ancora ha le dimensioni del già visto: qualche decina, un centinaio al massimo, di persone da verificare.

 

Ironia della sorte, Damiano Guerinoni è figlio di Aurora Zanni, che ha lavorato qualche anno a casa dei Gambirasio. La storia delle famiglie si intreccia.

 

Il codice genetico di Damiano assomiglia per certi versi a quello trovato sugli slip di Yara. Ma non abbastanza per ipotizzare un’identificazione con “Ignoto 1”. Ma abbastanza per immaginare una somiglianza familiare. Già a questo punto far emergere il cognome della famiglia Guerinoni sembra un piccolo danno collaterale. Ma già allora evitabile. Gli inquirenti, messi sulla graticola da indagini senza risultato, hanno bisogno di un conforto. E’ il tributo sull’altare dei media. Yara è morta da un anno e mezzo – era già esplosa la polemica sul ritrovamento del suo corpo a poche centinaia di metri dai luoghi battuti per ritrovarla – e non c’è un sospettato. Zero. L’indagine genetica ha l’effetto di offrire segnali concreti a chi non può aspettare. I nomi aiutano a concretizzare. L’idea che possa essere un “Guerinoni” aiuta a far emergere un’identità possibile dalle ombre in cui è avvolto l’assassino.

 

Inizia la caccia ai Guerinoni. Nessuno dei parenti in vita dell’innocente Damiano è portatore di un Dna che si avvicini al reperto di “Ignoto 1”. I suoi cugini però sono più vicini di lui. Il papà di Damiano, Sergio è uno degli undici fratelli di una famiglia che comprende anche qualche persona ormai defunta. Tra questi Giuseppe Guerinoni, classe 1938, ex autista di bus, morto nel 1999, lasciando una vedova che abita a Clusone, a pochi passi da una sorella di Giuseppe, Vittoria. E tre figli.
I tre figli di Giuseppe Guerinoni hanno un Dna vicino, ma non abbastanza, a quello del mostro. Frugando tra le carte di casa emerge una vecchia patente, quando ancora si incollavano le marche da bollo con la saliva. Ecco: la saliva del defunto Giuseppe, nel settembre 2012 fa match quasi completo con il Dna di “Ignoto 1”.

 

La famiglia Guerinoni non ha scampo. L’assassino è un figlio di Giuseppe, visto che lui all’epoca dei fatti è morto da più di dieci anni. I dubbi sul reperto – possibile che il Dna recuperato dietro la marca da bollo sia senza buchi significativi? – vengono sciolti con l’esumazione dei resti mortali.

 

La caccia si fa metodica. Il signor Guerinoni è il padre biologico dell’assassino. Visto che i suoi tre figli legittimi non sono compatibili con la firma genetica sul corpo di Yara, bisogna scandagliare la vita privata in cerca di figli naturali. Illegittimi.
Secondo una recente ricerca di un noto genetista della Sapienza di Roma, almeno il 10 per cento degli italiani non è figlio del padre ufficiale. Insomma uno su dieci è figlio illegittimo. E non è una percentuale clamorosa. Negli Stati Uniti, dove il 30 per cento dei nati vivi nasce fuori dal matrimonio, nel 1990 il 26 per cento dei neri era considerato figlio illegittimo. Oggi la comunità bianca ha raggiunto percentuali simili: il 22 per cento di illegittimi.

 

Nell’indagine italiana il 10 per cento è una media, che viene superata in Lombardia e nel Lazio. Bergamo è una delle province lombarde. Si sa. Quindi il caso della famiglia Guerinoni sarà condiviso ampiamente da molte altre famiglie. Ma non per questo era giustificato lo sputtanamento. L’indagine avrebbe potuto proseguire con acribia senza dover indulgere in identificazioni di medio periodo.

 

L’ansia da prestazione mediatica ha finito per enfatizzare lo story telling a scapito dell’obiettivo di una indagine giudiziaria: l’identificazione del colpevole. Il lodevole sforzo – che per molto tempo ha destato dubbi e contrasti: negli Stati Uniti si sarebbe forse fatto uno screening di massa di 18 mila persone, con costi mai del tutto evidenziati e rendicontati? – ha portato a individuare il signor Massimo Giuseppe Bossetti come probabile assassino. Ma la prova – o l’indizio – decisiva era il suo Dna. Averlo recuperato con lo stratagemma del finto alcoltest è stato un altro successo degli inquirenti, che hanno ottenuto la definitiva (per ora) controprova rispetto a quello recuperato sul corpo di Yara. Ma a che cosa serviva, o è servito, indicare al pubblico, ai giornalisti, ai cittadini, la “filiera” della famiglia Guerinoni?

 

Di chiunque sia figlio, il signor Bossetti è chiamato a spiegare cosa ci facesse un reperto organico suo (al 99,9 per cento) sul corpo di una ragazzina trucidata. Che sia figlio di Guerinoni Giuseppe o di Bossetti Giovanni, che importa? Mentre invece importa molto alla signora Laura Poli (vedova di Giuseppe Guerinoni), ai suoi tre figli legittimi. Così come alla signora Ester Arzuffi (madre del presunto assassino) e a suo marito Giovanni Bossetti, alla sorella gemella del presunto omicida, Laura Letizia, al fratello (o fratellastro) Fabio, alla moglie Marita Comi, e ai suoi tre figli. Danni collaterali di una indagine suggestiva. Magari di una indagine che farà scuola (a prescindere dal costo economico e sociale. E familiare).

 

Il perché di questa rivelazione familiare forzata, di questo segreto condiviso dal 10 per cento degli italiani, resta senza risposta. Le storie boccaccesche di corna si sono incrociate con la storia crudele del Male. L’argomento privato del motteggio da giovedì grasso, si è mescolato alla tragedia di un venerdì santo.

 

Dare la colpa a qualcuno è stucchevole. Prendersela tardivamente con i magistrati o con i giornalisti – anche se non si sbaglia quasi mai – è roba da perditempo. Resta tutto lo sgomento di un terribile male minore prodotto per combattere il Male. L’intrusione nella privatezza della vita familiare senza una plausibile ragione. Si invoca spesso, e spesso fuori posto, il diritto alla privacy. In questo caso i dati sensibili della famiglia Guerinoni, delle eventuali abitudini sessuali del defunto signor Giuseppe e della combattiva signora Ester e della identità familiare di tutti i loro familiari sono stati ritenuti carta straccia. Per evitare la graticola mediatica di tre anni e mezzo di indagini silenziose, si è offerto un gustoso argomento di narrazione. Non necessario.

 

Forse è l’ultima versione del rituale del capro espiatorio. Dove non basta più trovare una vittima, rigorosamente innocente, che possa espiare la colpa collettiva di un Male che rischia di contaminare l’ordinamento stesso della vita sociale. In questo caso si offre in sacrificio un pezzo di vita sociale – la famiglia, i suoi legittimi segreti – per espiare la colpa di non poter opporsi alla morte, accompagnando il Male insopportabile con la corte di un piccolo, tragico, mediocre male quotidiano. Al trionfo della Morte rischia di sovrapporsi il trionfo del Male, esorcizzato non più da una saggia e terribile danza macabra di scheletri, ma da un violento racconto di corpi familiari, vivi, ma sfigurati, e privati di ogni possibile Resurrezione.

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