Le brigate “della pace”

Tatiana Boutourline

A Baghdad le forze sciite si organizzano, si danno nomi che sembrano una provocazione (Salam) e mostrano le armi. Kerry arriva per chiedere a Maliki una politica inclusiva, ma non esclude che gli strike inizino subito

Il segretario di stato americano, John Kerry, è arrivato ieri a Baghdad per chiedere al premier iracheno, Nouri al Maliki, “un governo più inclusivo”. Accompagnato dall’ambasciatore americano in Iraq Robert S. Beecroft e dal consigliere del dipartimento di stato Brett McGurk, Kerry ha parlato con Maliki per quasi due ore. Nessuno si attendeva un incontro cordiale: non è la prima volta che gli Stati Uniti consigliano (inascoltati) a Maliki una leadership “inclusiva” e da Washington sono in molti a ripetere che non c’è più tempo per sperare nel premier iracheno. Maliki, dicono, deve dare le dimissioni – ma non è detto che l’America aspetterà un cambio di governo per un’azione militare in Iraq. In una serie di interviste il presidente americano Barack Obama ha sottolineato che per Maliki è giunto il momento di mettere da parte i sospetti e le preferenze settarie per il bene comune, perché in caso contrario “non c’è alcun tipo di azione militare da parte degli Stati Uniti che possa tenere insieme l’Iraq”. Washington ha registrato il malcontento di sunniti e curdi ma – come ha ripetuto Kerry in Egitto – non è compito dell’America scegliere i leader iracheni e Maliki non ha mai lasciato intendere di essere disponibile a un passo indietro. “That was good” ha detto Kerry alla fine del colloquio mentre camminava verso l’auto scortato dal ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari. Che cosa possa scaturire di buono da quest’incontro (delle nomine più o meno simboliche in extremis?) però non si sa.

 

Funzionari dell’entourage di Maliki hanno rivelato che il premier ha chiesto ancora una volta agli Stati Uniti di colpire i campi di addestramento del gruppo jihadista dello Stato islamico (Isis) nonché i suoi convogli con alcuni strike, ma secondo le indiscrezioni Kerry avrebbe risposto negativamente preoccupato tanto dal rischio di vittime civili (1.816 morti solo a giugno, per il 69 per cento civili) quanto dall’offrire l’impressione che l’America si stia schierando nel campo sciita contro i sunniti. Nel frattempo sul campo per Maliki non accade nulla di buono. L’Isis ha conquistato altro terreno nella provincia di Anbar portando sotto il suo controllo le città di Rawah, Anah e Rutba, domenica ha espugnato postazioni lungo il confine con la Giordania e lunedì è stata la volta della cittadina di Tal Afar e del suo areoporto, un tassello importante del corridoio strategico verso la Siria che l’Isis si va ritagliando.
Così mentre l’esercito iracheno colleziona ritirate (è tutto “calcolato” dice Baghdad, “sono incapaci di contrastare l’avanzata dell’Isis”, scrive il New York Times) e il venerato grande ayatollah Sistani lo scarica, a Maliki non resta che mettersi nelle mani di Teheran. Qassem Suleimani è tornato a Baghdad come ai tempi in cui mandava sms a David Petraeus vantando il suo potere e la sua ubiquità. E nella capitale irachena è tornato pure Moqtada al Sadr, mullah con ambizioni da teologo, capo-popolo e agitatore, fondatore della micidiale milizia di al Mahdi, un tempo alleato e ora nemico di Maliki. A febbraio aveva annunciato l’abbandono della politica: si sarebbe occupato di cose meno terrene, disgustato come era dalla corruzione del premier. Poi però ci ha ripensato. Al Sadr è tornato in Iraq dal suo buen retiro iraniano e ha ribattezzato una nuova milizia. Non più la brigata di al Mahdi (Jaish al Mahdi), ma quella di Salam, della Pace. E’ bastata meno di una settimana ad al Sadr per mettere insieme una parata che di pacifico aveva solo la colonna sonora: l’antica cantilena che ritma il martirio dell’imam Hossein. Colonne e colonne di pick-up stipati di missili hanno attraversato Baghdad, gli uomini imbracciavano fucili o indossavano finte cinture esplosive, mostravano i micidiali Erp, gli ordigni che hanno ammazzato americani in massa sulle strade, le donne pistola alla mano, chador neri e foulard bianchi drappeggiati a testimoniare di essere pronte al sacrificio estremo.

 

Da Teheran la Guida suprema Ali Khamenei nella sua prima dichiarazione ufficiale sulla crisi irachena ha tuonato contro l’ipotesi di un intervento straniero in Iraq, di fatto sabotando gli sforzi del presidente, Hassan Rohani, di legare una possibile cooperazione Teheran-Washington in Iraq al dossier nucleare. Secondo l’Independent alcuni funzionari americani avrebbero confidato agli iracheni che Teheran sarebbe pronta a perdere Maliki pur di ottenere maggiore flessibilità da parte degli Stati Uniti riguardo ai livelli di arricchimento dell’uranio consentiti all’Iran.

 

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