Dimenticare Montanelli

Paolo Di Paolo

Vorrei sbagliarmi, ma temo che l’Italia non sappia più che farsene di Indro Montanelli. Quando lui stesso, negli ultimi anni, non faceva che ripetere “So di avere scritto sull’acqua”, quando ricordava la frase del suo maestro Ugo Ojetti (“L’Italia è un paese di contemporanei senza antenati né posteri perché senza memoria") credevo si trattasse di una posa scaramantica.

Vorrei sbagliarmi, ma temo che l’Italia non sappia più che farsene di Indro Montanelli. Quando lui stesso, negli ultimi anni, non faceva che ripetere “So di avere scritto sull’acqua”, quando ricordava la frase del suo maestro Ugo Ojetti – “L’Italia è un paese di contemporanei senza antenati né posteri perché senza memoria” – credevo si trattasse di una posa scaramantica. In una delle ultime “Stanze” (la rubrica che ha tenuto quotidianamente sul Corriere della Sera, tra il ’95 e il 2001), spiegava a un lettore che è inutile preoccuparsi di cosa lasciare ai posteri, e lo faceva con la certezza di essere ricordato “dai miei lettori e, tutt’al più, dai figli dei miei lettori”. Non era falsa modestia. Era realismo. Per uno come lui, appassionato alla storia, il tema dell’oblio non poteva essere però indolore: come un palombaro, un becchino, uno sciamano, chi scrive di storia è impegnato in un perenne corpo a corpo con la dimenticanza, con la vita inabissata. Che traccia lasciamo? Quanto a lungo permane, prima che il tempo la cancelli?

 

[**Video_box_2**]Nel 1944, mentre è rinchiuso in una prigione nazifascista, Montanelli chiede a un amico di mandargli qualche libro. Sceglie – e non a caso – grandi biografie di personaggi storici. Il Magellano ritratto da Stefan Zweig, per esempio. Una vita di Pietro il Grande. Se uscirò vivo di qui, scrive all’amico, te li pago; se invece mi ammazzano, te li pagheranno i miei eredi. In novantadue anni, Montanelli deve aver sentito spesso il fiato della morte sul collo – con la divisa del XX Battaglione eritreo, partito volontario nel ’35; sui grandi fronti di guerra raccontati nei panni di inviato – la Spagna nel ’37, la Finlandia nel ’39, l’Ungheria nel ’56 – o quando un commando delle Brigate rosse gli spara alle gambe il 2 giugno 1977. Ma in un racconto scritto a trent’anni – quasi uno sfogo lirico – si percepisce un legame con l’idea della morte che somiglia a un’ossessione. Il titolo è “La morte”: evoca se stesso bambino alle prese con violente crisi di malinconia e di panico; diventeranno le ricorrenti fasi depressive dell’età adulta. Prossimo ai novant’anni, si era impegnato in una battaglia per l’eutanasia, spaventato dall’idea di morire “male”: in realtà arrivò lucidissimo alla fine, scrisse il suo ultimo articolo due settimane prima di morire e quattro giorni prima dettò alla nipote un auto-necrologio. “Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza / Indro Montanelli (1909-2001) / prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli per la fedeltà e l’affetto con cui lo hanno seguito”. Aggiunse che non erano gradite cerimonie religiose né commemorazioni civili: la sua insofferenza alla retorica era assoluta. Ma non gli fu risparmiata: alle solite, dimenticabili dichiarazioni dei politici e dei notabili raccolte dalle agenzie di stampa, si sommò un profluvio di ritratti commossi, anche da parte dei giornali – compreso quello da lui fondato – che nel tempo gli erano diventati ostili. A più di dieci anni dalla morte, dov’è finita quella commossa esaltazione? Si può dire che Montanelli sia dimenticato? No, questo no. In migliaia di case italiane, anche nelle librerie più scarne, restano – forse a prendere polvere – i volumi della sua popolarissima “Storia d’Italia”. Una delle operazioni divulgative più straordinarie compiute nel secondo Novecento italiano: gli storici di professione inorridivano di fronte alle semplificazioni, ai tratti romanzeschi o ironici del racconto, senza capire che per avvicinare Giulio Cesare e Machiavelli al pubblico meno attrezzato bisognava pur rinunciare a qualcosa. Mio nonno, fermo alla quinta elementare, la leggeva con gusto. Ma gli storici di professione non consideravano mio nonno un loro interlocutore, Montanelli sì. Ogni tanto mi accade di vedere anche qualche trenta-quarantenne che legge in metropolitana le gesta degli antichi romani nella versione di Montanelli. Una mia giovane insegnante di Spagnolo, a Salamanca, mi disse – saputo che ero italiano – di avere molto amato la “Historia de los Griegos” di Indro Montanelli: un regalo di suo padre negli anni dell’adolescenza. Ma la fama, la Gloria – direbbe Montanelli – “ci corbella”, non è detto che duri, anzi, per la maggioranza degli esseri umani dura assai poco, bisogna rassegnarsi. Quando Borges stava per morire e ragionava di continuo sull’Oblio, gli amici più giovani correvano a rassicurarlo: maestro, resteranno i suoi libri! Lui sorrideva. Loro non capivano. Borges pensava a un oblio più vasto e assoluto, a un “dopo” molto più lontano, quando non resterà traccia di niente e nessuno. Così Montanelli, attraversando le sue crisi depressive, arrivava a vedere quel buio e quel niente: ne restava atterrito. Le profondità della sua mente erano assediate da ombre che sarebbe stato difficile sospettare per chi, da fuori, vedeva solo un uomo di successo, sicuro di sé, spiccio e burbero come molti toscani. Ho avuto la fortuna di curare il suo epistolario e ho visto, dietro Montanelli, Indro: fragile, spaventato, insicuro a quaranta come a vent’anni, quando confessava al suo vecchio professore di liceo “i fischi mi fanno paura”. Ho scoperto un autentico, grande malinconico: raramente compiaciuto di sé e del suo successo, più pensoso e inquieto di molti suoi articoli, risolti con la nota ironia, con un’attitudine a semplificare talvolta grossolanamente. D’altra parte, quella di Montanelli è la storia di un letterato mancato: avrebbe volentieri fatto strada come scrittore puro; nei primi anni Trenta ne parla a un amico quasi angosciato, insoddisfatto: provo ancora una volta, poi basta. La campagna d’Etiopia gli fornisce una materia narrativa consistente, le memorie che ne nascono piacciono a Ojetti; lui continua, guarda al paesaggio toscano delle sue origini, scrive un romanzo – “Giorno di festa” – che sa di bozzettismo da antologia scolastica e di salotto alto-borghese. La confraternita letteraria lo ignora (lui disse a posteriori che non sarebbe stato disposto a pagarne i pedaggi), Indro si dà al giornalismo, insiste con il Corriere della Sera – è il suo grande sogno – ma dovrà aspettare il 1938, dopo aver scritto sulla guerra di Spagna per il Messaggero irritando l’establishment fascista. Quando il direttore Aldo Borelli gli apre le porte del quotidiano di via Solferino, Montanelli ci mette poco a diventare la firma più brillante. Basta che gli siano tolti i legacci dell’elzevirismo di maniera, e che lo si mandi a raccontare un fronte caldo. Oppure – come accadrà negli anni Cinquanta – che lo si inviti a ritrarre i protagonisti del suo tempo: non nella forma di una canonica intervista, ma nella forma di un racconto, un autentico racconto con capo e coda in cui si mescolano il vero e il verosimile, il miele e il fiele. Si tratta degli “Incontri”, che offrono le sue pagine più belle. A Montanelli basta un dettaglio: una gallina che entra nel salotto di Ardengo Soffici, i calzini verdi di Luigi Einaudi, le orbite fonde di Anna Magnani, l’affettazione di André Gide, l’aria da curato di campagna di Giovanni XXIII, dietro cui è nascosta la tempra di un Papa cinquecentesco. Lo scrittore si mette al servizio del giornalista, o viceversa, ma senza mai eccedere, sempre ricordando l’ufficio di un pezzo di giornale. Senza mai, cioè, “fare letteratura”. Così la sua firma si stacca da quelle dei colleghi. Un direttore del Corriere, Missiroli, si lascerà sfuggire questa considerazione: prima c’è Montanelli, poi tiri una riga, e sotto, ma molto sotto, vengono tutti gli altri. La sua popolarità, molto prima dei tempi televisivi, è stata ineguagliabile: Gassman gli faceva il verso a teatro, i lettori borghesi non si perdevano un suo articolo, quelli più a sinistra lo guardavano con sospetto e con diffidenza anche quando assumeva posizioni pesantemente anticlericali o intraprendeva, come nel ’70, battaglie ambientaliste in difesa di Venezia (“Sono sempre, sia chiaro, un anticomunista viscerale. Su tutto, meno che su Venezia”). Restava pur sempre l’autore di quelle indigeste – per chi era comunista – corrispondenze da Budapest, mentre i carri armati sovietici spezzavano nel sangue la rivolta del ’56. Molti anni dopo, con la consueta onestà intellettuale, Miriam Mafai riconobbe di non averle lette per pigrizia e per pregiudizio.

 

Ma perché Montanelli diventi l’orco e il nemico bisognerà aspettare gli anni Settanta, quando – insofferente verso un Corriere ai suoi occhi troppo sbilanciato a sinistra – decide di uscirne e di fondare il Giornale. Era il giugno 1974, sono passati quarant’anni esatti. L’Italia era molto diversa: poteva capitare, a un ragazzino che avesse portato a scuola il quotidiano fondato da Montanelli, di essere rimproverato dalla maestra: “In quest’aula un quotidiano fascista non entra”. Quando, nel ’77, due brigatisti rossi gli sparano alle gambe, nel volantino di rivendicazione dell’attentato il giornalista è definito così: anticomunista, reazionario, controrivoluzionario, fascista mascherato, finanziato dalle multinazionali. Per scrollarsi di dosso certi aggettivi c’è voluto parecchio tempo: ancora alla fine degli anni Novanta nel liceo che frequentavo c’era chi considerava Montanelli un fascista. Ma erano termini presi in prestito da padri e madri che avevano fatto il ’68 e non riuscivano a staccarsi dalla loro giovinezza. Non capivano che la tenacia un po’ ottusa con cui la difendevano non era tanto diversa da quella che rimproveravano a Montanelli quando rievocava, con una punta di nostalgia, i suoi trascorsi nell’Africa coloniale. Così, nonostante avesse guadagnato, nella stagione anti berlusconiana, applausi dai suoi antichi detrattori (a una Festa dell’Unità nell’estate ’94 fu accolto da un’ovazione), Montanelli non è mai stato del tutto sdoganato. I suoi lettori sono invecchiati, non hanno più molte forze, e nel caos della rete trovi ragazzetti che, senza sapere niente, gli fanno le pulci. Ha sposato una quattordicenne in Africa! A vent’anni elogiava il Duce! Ha preso i soldi da Berlusconi per anni! Esistono imbecilli superficiali e imbecilli profondi, taglierebbe corto Montanelli. Ma io continuo a restare stupito di fronte a certi pregiudizi fuori tempo massimo, all’atteggiamento censorio e moralista che si applica a corrente alternata. Resto spiazzato se, dopo avere scritto un libro su Montanelli (“Tutte le speranze”, Rizzoli) c’è chi mi scrive: come sei caduto in basso! O se un critico letterario che non farebbe mezza obiezione a Céline, in un incontro pubblico comincia a inveire contro Montanelli: era reazionario, volgare, misogino! L’ho sempre odiato! Che cosa posso rispondere? Non c’è solo una posizione ideologica stupida e anacronistica dietro certi giudizi, ma anche – ed è peggio – la convinzione di essere migliori e di essere tenuti perciò a emettere sentenze. Ricordo un articolo su Repubblica di uno storico importante come Carlo Ginzburg: all’improvviso, dal niente, parlava con disprezzo di Montanelli e del suo “livello morale”. Mi spaventano, come spaventavano Montanelli, queste certezze granitiche, questo senso di superiorità, questi tribunali improvvisati.

 

Da adolescente, gli scrivevo lettere, le pubblicava spesso nella sua “Stanza”. Una volta gli chiesi di chiarirmi le idee sui “giudizi contrastanti” relativi a un certo personaggio. Rispose così: “Credi forse che gli uomini, e specialmente quelli di forte personalità, siano riassumibili in un giudizio solo? Se così fosse, ti sfiderei a formulare quello su Giulio Cesare. Cosa fu Cesare: il più grande generale e statista, o la più grande canaglia di tutti i tempi? Fu, credi a me, entrambe le cose. Gli uomini, te ne accorgerai, sono, anzi, siamo sempre un coacervo di contraddizioni”. Più che giudicare, gli stava a cuore comprendere. Si metteva di fronte alla complessità di un’esistenza e di un carattere con più curiosità, o pietà, che ansia di tirare conclusioni. Nell’Italia di oggi è soprattutto la generazione di mezzo – quella dei cinquanta-sessantenni – a essere ossessionata dal vantare una propria “buona coscienza”, impegnata nel distribuire etichette e categorie morali. Giudica, giudica inesorabilmente, la generazione che non voleva essere giudicata. Ma Montanelli, nel ’79, aveva già messo a fuoco il destino di “questi ragazzi-prodigio abortiti, di questi barricadieri con pancia e cellulite, che credevano di camminare con la storia, e invece camminavano solo con la moda”. Non riesco, a differenza loro, a scandalizzarmi del fatto che Montanelli sia stato fascista. Che posso farci? Né intendo difenderlo: mi limito a constatare. Come devo limitarmi a constatare che di Montanelli – al netto delle sue scelte e opinioni politiche – molto resta inservibile nell’Italia del 2014. La sua chiarezza: è un vanto, piuttosto, essere difficili, confusi, incompresi. Piace essere allusivi. Ma Montanelli ricordava ai suoi giornalisti: “Quando si parla al rag. Brambilla bisogna rinunciare a quelle strizzatine d’occhio e allusioni che tanto contribuiscono alla sveltezza e brillantezza della pagina. Ma è una rinuncia che tutti – a cominciare dal sottoscritto – dobbiamo accettare perché il nostro interlocutore è proprio lui, e solo lui, il rag. Brambilla con le sue pedestri esigenze”. Che altro? L’insofferenza per l’anima “parassitaria e servile” della cultura italiana, nata nel Palazzo e alla mensa del principe di turno, laico o ecclesiastico che fosse. L’insofferenza verso gli oligopoli, le camarille, le cricche, le congreghe, i clan. Le mafie anche oltre la mafia. Le caste anche oltre la casta. Nel cosiddetto mondo della cultura, che sembra sempre al riparo dal peggio e non lo è, abbondano. Detestava anche la furbizia e gli eccessi di teatralità, i toni melodrammatici, il trasformismo, la cialtroneria. Reazionario? Spesso solo un po’ più serio di tanti altri. E ancora: l’autoironia. La vocazione a essere, come diceva, “la stecca nel coro”: appena il coro intona le prime note. La sua solitudine. Soprattutto questo, direi: la sua maestosa solitudine. L’“anarchico da salotto”, l’uomo “ambiguo moralmente”, il “misogino”, il “divulgatore di basso profilo” – per citare alcuni degli epiteti che all’uscita del mio libro diversi lettori hanno rivolto a Montanelli – ha avuto molte contraddizioni, molti difetti, come tutti, ma una sola grande colpa. Non voler diventare un guru. Per nessuno. E’ riuscito a deludere chiunque si aspettasse questo da lui. E in Italia, oggi, chi non diventa un guru è difficile che si salvi.

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