Ecco perché il nord dei denari s'è tuffato sul carro di Renzi

Alberto Brambilla

Da “sindaco comunista” a “ultima spiaggia”. La rottura della concertazione, lo smembramento dei corpi intermedi, le speranze degli industriali in panne. Quando Renzi infila il bisturi, Lombardia e Veneto gongolano. L’incognita dei mercati impazienti. Parlano Bonomi e Vitale

E’ stato un percorso di avvicinamento cauto, durato quasi due anni, cominciato nell’ottobre 2012 quando Matteo Renzi si presentò al blasonato hotel Four Season e alla Fondazione Metropolitan per alzare i quattrini con i quali finanziare il suo lungo tour elettorale. “Tel lì el sindaco comunista”, sibilavano i negozianti delle boutique di Montenapoleone mentre sfilavano trader, assicuratori, uomini d’affari incuriositi dal fenomeno renziano e pronti a firmare un assegno (in bianco) a tre o più zeri. L’ex sindaco fiorentino è premier da quattro mesi, segretario del Partito democratico da sette, ha sfondato alle europee col 40,8 per cento dei voti e “toh, è l’ultima spiaggia, l’uomo della provvidenza”. Non più soltanto per quella truppa più o meno danarosa, col raider Davide Serra o il rispettatissimo industriale della chimica Guido Ghisolfi. Ora imprenditori, industriali, manager, banchieri danno appoggio tattico dalle retrovie. L’establishment economico, insomma, ha abbandonato le riserve, anche antropologiche, sul bullo fiorentino che soverchiò Enrico Letta, e gli si tuffa in braccio. Da quando occupa Palazzo Chigi la sua tracotanza (oplà!) è diventata intraprendenza. Intraprendenza dimostrata con l’archiviazione della concertazione in quanto forma di trattativa paralizzante tra politica e parti sociali, alibi abusato a sinistra e a destra per scaricare la colpa di troppe riforme mancate.

 

Renzi parla ai lavoratori, non ai sindacati. Agli imprenditori, non ai rappresentanti dei medesimi. La concertazione s’affloscia. I corpi intermedi, già agonizzanti, vengono infilzati. Le camere di commercio, convegnifici che incassano gabelle dagli associati, ad esempio, sono costrette a dimagrire; lo stato non sarà più così munifico con loro. Più Renzi abbatte vecchi totem impolverati più gli imprenditori gongolano per una rottura culturale che (alcuni) invocavano da tempo: fattore chiave per ottenere il consenso del nord produttivo, in particolare delle due associazioni imprenditoriali più influenti per numero di iscritti, l’Assolombarda e la Confindustria veneta. Il capo della Assolombarda, Gianfelice Rocca, presidente della multinazionale Techint nonché ottavo uomo più ricco d’Italia, un anno fa aveva appunto criticato l’immobilismo di partiti, istituzioni, sindacati e delle stesse associazioni imprenditoriali (“sembrano congelate”). Dopo le elezioni europee, nella sua relazione annuale, ha “gettato il cuore ben oltre la staccionata”: “L’anno scorso avevo titolato la mia relazione ‘Va spezzata la spirale della sfiducia’. Due domeniche fa gli italiani hanno dato un segnale netto. Tra disperazione e richiesta d’azione, hanno scelto l’azione. L’agenda dei cambiamenti è enorme. Veniamo da un ventennio di stagnazione. Non si può pensare che un uomo solo ce la possa fare. Dobbiamo lavorare tutti insieme”. Idem per i veneti: l’endorsement di Confindustria Veneto, reggente Roberto Zuccato, è arrivato anche prima della tornata elettorale nella quale il Pd, nel nord-est, ha poi superato Lega e Forza Italia messe insieme; mai successo. Per il sociologo Aldo Bonomi “Renzi ha assecondato la metamorfosi delle forze sociali e le passioni tristi – paura, incertezza, rancore – di un capitalismo duale in transizione. C’è un capitalismo resiliente, un’élite che sta costruendo il suo adattamento al capitalismo globale: Renzi l’ha conquistata. E poi c’è il grosso del tessuto produttivo, il capitalismo molecolare, dei capannoni, delle microimprese che è rimasto in stand by e l’ha visto come ultima risorsa”, dice Bonomi bilanciando le tesi del suo saggio “Capitalismo In-finito” (Einaudi) con lo sfondamento elettorale del Pd. “E’ un invaso di consenso del ceto medio come l’abbiamo visto solo nel Secolo breve. Ma allora era un ceto medio in ascesa, oggi invece vive in una dimensione di forte stress”.

 

[**Video_box_2**]In Brianza solo il 9 per cento circa delle imprese manifatturiere sono sopravvissute indenni alla crisi, mentre il nord-est è la macroregione con il tasso di fallimenti più elevato d’Italia. Il premier sembra uno di loro per come parla: il suo linguaggio mischia politica e analisi di bilancio. Tant’è che un finanziere meneghino affida al Foglio il paragone ardito di un Renzi-manager che promette un ambizioso piano industriale a scadenze strette per l’esercizio in corso, salvo poi riservarsi la possibilità di disattenderlo, dilatarlo, complici i marosi del mercato (vedi il pagamento dei debiti della Pa ai fornitori: marzo, no settembre, e poi arriva l’infrazione della Commissione europea). E poi assicura ai suoi stakeholder che “quel 40 per cento lo reinvestiamo immediatamente”, quindi rilancia con una golosa offerta per l’anno successivo (“vi dico che da qui a un anno vi renderò più semplice pagare le tasse”). “Renzi dovrà corrispondere le intese. E’ evidente che il suo percorso sarà fatto di stop-and-go, ma la direzione è quella di ridurre i costi dello stato per la collettività e per le imprese. Penso che se riuscirà a fare il 20-25 per cento di quel che promette sarà un successo: c’è un potenziale inespresso di 10 punti di pil solo modernizzando la burocrazia ed emanando i decreti attuativi che da tempo attendono applicazione (sono 400, ndr)”, dice Guido Roberto Vitale, banchiere d’affari e “renziano ante-marcia” che fu presente alla cena di fundraising. L’interrogativo ricorrente, però, è quanto durerà la buona dei mercati. La Borsa ha esultato dopo l’affermazione elettorale (più 3 per cento), stabilità di governo assicurata, i fondi speculativi comprano asset a basso costo – come nel resto dell’Euromed – e le Ipo previste per quest’anno a Piazza Affari già superano per capitalizzazione il record del 2007. “Non bisogna farsi trarre in inganno dai mercati”, si è ripetuto spesso al Consiglio per le Relazioni tra Italia e Stati Uniti di Venezia sabato scorso. O per dirla come Mohamed El-Erian, ex del fondo Pimco, lì presente “money comes, money goes”. Tuttavia il consenso del pur umorale nord sembra essere lì per restare.  

 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.