Tifosi del Giappone al Mondiale in Brasile (Foto Ap)

We hate soccer

Redazione

Il calcio è come il socialismo, non dà troppo al popolo per paura che voglia cambiare, dice Stephen H. Webb su Politico.

Il rapporto tra calcio e Stati Uniti è oggetto da anni di analisi così approfondite da essere diventato tanto noioso quanto inafferrabile. C’è chi pensa che l’America sia ancora ai livelli di Usa ’94 – stadi vuoti, poco interesse, molte ragazze che lo praticano – e chi sostiene che sia pronto ad avere dignità pari agli sport più tradizionali come baseball, hockey e football. Del secondo aspetto si occupa Stefano Pistolini dall’altra parte di questa pagina. Sul primo ha scritto parole definitive Stephen H. Webb, professore di Filosofia e religione e collaboratore abituale di First Things. Come è noto, filosofia, religione e calcio sono molto legate tra loro. In un articolo pubblicato su Politico qualche giorno fa, Webb spiega che “lo sport è il riflesso del carattere e delle aspirazioni di una nazione, e non è un caso, che il calcio trovi difficoltà a sfondare negli Stati Uniti”. Gli americani sono un popolo fondamentalmente ottimista, dice Webb, mentre il calcio è un gioco tragico. Guardare una partita di calcio, argomenta il filosofo, “è come osservare un branco di Sisifo intenti a spingere la stessa roccia su una collina, ma senza usare le mani. In cima alla collina, però, c’è un ragazzo che ogni volta calcia la roccia giù dal pendio, così che gli undici Sisifo devono ricominciare tutto da capo”. Il calcio rispecchia troppo i valori del “vecchio mondo”: non c’è esaltazione del singolo, ma del gruppo, tutti partono dalle stesse condizioni e gli strumenti di lavoro non sono troppo vistosi (si usano i piedi e non le mani). Nel baseball e nel basket ci sono decine di momenti in cui un giocatore compie un gesto che va al di là delle sue capacità. Nel calcio questo succede così raramente che i tifosi si stupiscono quando accade, e il fatto che il più delle volte il gesto tecnico imprevedibile non porti a un gol è accettato come una normalità. Nel basket, prosegue Webb, ci sono molti punti durante una partita, nel calcio pochissimi. “Si potrebbero allargare le porte, ma non sarebbe una buona idea”, ironizza. In questo senso, sostiene, “il calcio è simile al socialismo: non dà alla gente troppo di quello che desidera perché teme che la gente poi voglia cambiare le regole”. Se lo sport serve a sublimare l’istinto di guerra, il calcio serve a sublimare l’istinto sportivo. Al massimo ci si può spingere, ma chi viene spinto reagisce come se fosse stato aggredito da un bullo. “Se avete bisogno di un’analogia militare, pensate a due potenze mondiali che litigano attraverso i loro delegati del Terzo mondo i quali non hanno abbastanza armi per ferire nessuno e innescare una vera e propria guerra”. Ma, ironizza Webb, il calcio a qualcosa serve: qualche tempo fa è stato condotto un esperimento su venti ragazzi, dieci dei quali affetti da Disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Cinque giorni di full immersion calcistica, con partite di pallone dalla mattina alla sera. Al termine dell’esperimento, i dieci ragazzi affetti da distrubo dell’attenzione hanno avuto risultati relativamente migliori degli altri dieci “normali” agli stessi test di intelligenza. “Il calcio e i suoi movimenti ripetitivi permettono maggiore attenzione e impegnano meno l’intelligenza”, dice Webb citando uno degli autori dello studio. “Quindi – conclude – forse c’è un futuro per il calcio in America, dopo tutto. L’istupidimento da sport potrebbe essere un modo efficace per porre rimedio alla crisi educativa del nostro paese. Il calcio può aiutare gli americani ad abbassare le loro aspettative circa il nostro ruolo nell’economia globale. Dobbiamo imparare a lavorare di più ottenendo di meno in cambio”.