Orgoglio parruccone

Salvatore Merlo

“Renzi ha bisogno di noi burocrati, noi abbiamo diritto al nostro decoro”. Colloquio tra i fasti barocchi di Palazzo Spada, dove il segretario generale del Consiglio di Stato difende la sua “Arte” (con Gramsci e Anatole France).

Roma. Una scrivania severa, un ritratto cinquecentesco di Ignazio di Loyola (gesuita, eh? “Eh…” arieggia il gran togato che ho di fronte) e inoltre poltrone come si deve, damasco azzurro, velluti, oro, tutto in questa stanza sembra voler definire il rango di chi la occupa. “L’alta burocrazia è la spina dorsale dello Stato. Con la esse maiuscola. E lo Stato deve avere i suoi simboli, il suo prestigio, la sua autorevolezza”, dice Oberdan Forlenza, segretario generale del consiglio di Stato. “Se io l’avessi ricevuta in maglietta e jeans, in un anonimo palazzone dell’Eur, che impressione le avrei fatto? In Italia non ci vuole meno burocrazia. Ci vuole una burocrazia più efficiente. L’amministrazione non è sovradimensionata”. E dunque questo gran dignitario diffida della guerra di Matteo Renzi ai poteri cosiddetti parrucconi, rivendica anzi il primato della tecnica e dell’estetica, della rappresentazione del potere, anche con i suoi fasti, i suoi misteri, “come servizio democraticamente reso ai cittadini”. E spiega: “Noi siamo lo Stato. E qualsiasi governante ha bisogno della ‘carriera’, della burocrazia, dello Stato. Ci vuole sempre qualcuno che sappia fare le cose. O che sappia dire di no”. E poiché lui è un prodotto delle Frattocchie, per spiegarsi meglio cita Althusser, “esiste la forza resistente della struttura burocratica”, dice, con orgoglio. E al vento dell’innovazione, della rottamazione, il cui passo ancora non si avverte nei corridoi di questo Palazzo che ospita la prospettiva del Borromini, lui contrappone Gramsci: “La critica esclusiva al passato spesso nasconde l’incapacità di affrontare il presente”.

 

La stanza dentro Palazzo Spada è quella di un principe del Rinascimento, affrescata come la Cappella Sistina, il carro del Sole che mette in fuga la Notte. E Oberdan Forlenza (“Oberdan? Avevo un bisnonno anarchico”), grande e tondo, ci si muove dentro con umiltà di potente, compreso nel suo ruolo di magistrato amministrativo e di segretario generale: è come se fosse l’amministratore delegato della giustizia amministrativa, mi spiega, con la condiscendenza e la bonomia usata verso il provinciale che viene portato a corte. E dunque lui va in udienza, sì, è un magistrato, un consigliere, uno di quelli che vengono chiamati “mandarini”, cioè la grande intendenza che poi occupa i ruoli chiave nei gabinetti dei ministri, nelle soprintendenze, a Palazzo Chigi, nelle Authority, nei teatri. Il grande pubblico non ne conosce i volti e stenterebbe a indovinarne le funzioni. Ma Oberdan Forlenza è anche il mandarino dei mandarini, anche se questa espressione non gli piace affatto, perché della magistratura amministrativa è il gran ciambellano, il maestro di Palazzo, l’uomo dei conti, dei bilanci, dell’amministrazione: “Ma lo vede come lo teniamo Palazzo Spada? E’ un gioiello”. E in effetti il Palazzo è magnifico, busti romani, marmi scolpiti dal Bernini, stucchi, tappeti, affreschi, restaurato e tirato a lucido, un gioiello su cui si specchia il riflesso di questi grand commis de l’Etat: “Dicono che dovrebbe essere un museo. Ma se non ci fossimo noi, sarebbe così ben tenuto? Anche nei beni culturali c’è chi ritiene che la conservazione non sia musealizzazione ma uso rispettoso”. Vi chiamano parrucconi. “Chi?”. Berlusconi, un tempo Tremonti, forse oggi persino Renzi. “Parrucconi sa di vecchio, vetusto, conservatore, lento e inutile. Non è così. Chi le scrive le leggi, se non i parrucconi degli uffici legislativi? Chi li tiene i conti dello Stato, se non i parrucconi della Ragioneria? Chi lo gestisce l’ordine pubblico se non i parrucconi del Viminale? Chi amministra la giustizia, se non i parrucconi giudici? E’ chiaro che si deve cambiare. Ma con saggezza”. E così esprime la dottrina dell’esangue indipendenza istituzionale contro il potere sanguigno della politica.

 

“Esiste ancora una Costituzione a cui noi giuriamo fedeltà”. Le forme spettacolari e marketizzanti lo infastidiscono, “non si vive di sola comunicazione. Occorre la gestione”. Eppure quest’uomo ha come bussola l’accordo, nella sua estesa potenza notarile, “la politica indirizza, governa. L’intendenza di Stato applica e mette la tecnica al servizio di chi governa”. Ma sempre all’ombra della legge, del nomos, “purché tutto stia nelle regole”, perché, dice il segretario generale, “il ruolo del burocrate è anche quello di dire alla politica quando sbaglia. Quando c’è una legge che non può essere violata. Bisogna saper dire di no”. Il burocrate gestisce la tecnica e dunque suggerisce. E forse per questo i capi di gabinetto, i segretari generali, nei palazzi romani sono chiamati “parolina”, quella che leggermente curvandosi, come chi è avvezzo ai modi felpati del comando, chiedono di poter dire in privato al presidente, al premier, al ministro. “E qui il burocrate obietta, raccorda, accomoda, ripara”, dice Forlenza. Ma può anche sfasciare meglio di chiunque altro e senza lasciar traccia. Ed è questo che dà fastidio a Renzi.

 

[**Video_box_2**]Per il premier ragazzino, la burocrazia è “un potere monocratico che non risponde a nessuno, ma passa sopra a chi è eletto dai cittadini”. Le battaglie dei grandi burocrati sono battaglie poco appariscenti, dice Renzi, ma lunghe e insidiose: a maggio il Servizio bilancio del Senato aveva bocciato le coperture del decreto sul bonus di 80 euro. E Renzi aveva risposto dicendo di non aver intenzione “di chiedere il permesso”. Resistenze, per il presidente del Consiglio, tanto più temerarie quanto meno vistose, impostate sul piano tecnico e giuridico e comunque dispiegate sul filo delle audizioni felpate, delle segnalazioni ermetiche, delle osservazioni iniziatiche, delle indagini conoscitive, dei richiami formali. “Faccio piazza pulita”, ha detto Renzi. E infatti il primo punto del disegno di legge sulla riforma della Pubblica amministrazione, di cui si discute in questi giorni, prevede la cancellazione delle prefetture, delle ragionerie, delle direzioni del lavoro e delle entrate, degli archivi notarili, delle soprintendenze… “L’annichilimento della burocrazia”, sorride Forlenza. “E lo Stato chi lo fa funzionare? Se lei entra nelle stanze delle soprintendenze ai Beni culturali oggi ci trova quattro gatti. Se fa un giro in un commissariato le spiegheranno che non hanno la carta, la benzina, i computer. L’amministrazione non funziona perché ce n’è poca, perché è povera. I lacci amministrativi si possono anche sciogliere, ma è necessario che qualcuno controlli”. E poiché Forlenza è il prodotto degli studi classici, delle scuole dove la parola è il vestito della cosa, del liceo come sartoria della vita, e poiché infine è anche napoletano, risponde ancora con una citazione dotta: “Tutta questa storia mi ricorda un romanzo di Anatole France che s’intitola ‘Gli dèi hanno sete’. Ebbene, Anatole France dice che prima si fa il processo al vecchio, ma con le regole. Poi tuttavia gli imputati sono troppi, e allora si passa al processo collettivo. Ma poiché ancora non si fa in tempo, per sbrigarsi, a un certo punto si comincia a fare il processo senza testimoni, poi senza avvocati, in un crescendo parossistico. L’effetto è che si finisce con il mangiare se stessi. La burocrazia, ripeto, è lo Stato. E lo Stato deve mantenere il suo decoro, il suo prestigio, la sua funzione, la sua possibilità di garantire i cittadini. Lo Stato non può cancellare lo Stato”. Cioè la politica non può cancellare la burocrazia? “La politica può fare quello che vuole. Il Parlamento approva le leggi. Ma attenzione a riservare ai burocrati la sorte che tocca ai profeti di sventura. I quali di solito hanno ragione, ma proprio per questo non li si ascolta”.

 

E davvero il conflitto tra tecnica e politica, carriera burocratica e arte del governo è storia antica, destinata a trascinarsi con indifferente pendolarità. Ottusi e beati gli ingegneri sovietici sapevano che tanti pali e tanti fili e tante centrali avrebbero illuminato la città di Brest e quella di Vladivostock, ma soltanto i politici, i commissari del popolo, i dirigenti del partito potevano poi dare un senso complessivo a quelle luci di classe: “Il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese”, aveva spiegato Lenin. Ma Stalin, che realizzò davvero l’elettrificazione, maltrattò così i dirigenti del partito: “Scrivete quante risoluzioni volete, fate tutti i giuramenti che volete, ma se non vi sarete resi padroni della tecnica, dell’economia e della finanza, non ne uscirà niente di buono”. E Forlenza aggiunge, allusivo nei confronti del novismo antiburocratico: “Come diceva Togliatti, derivandolo da Hegel, con le anime belle non si va lontano”. Le associazioni per la tutela dei beni culturali vorrebbero sfrattarvi dalla dimora rinascimentale di Palazzo Spada. “Il Consiglio è in questa sede da cento anni, da quando il Palazzo fu acquistato dagli ultimi discendenti della famiglia. Fu acquistato dallo Stato per stabilirvi un organismo d’antica dignità. Il Conseil d’état du Roi nacque in Francia, nel medioevo”. E fu soppresso dalla Rivoluzione del 1789. “Ma in Italia i padri costituenti lo hanno conservato”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.