Volontari delle nuove "Brigate della pace", un contingente iracheno destinato alla difesa dei luoghi sacri sciiti (Foto Ap)

Califfato islamico, tornare a Ratisbona

Giuliano Ferrara

Con l’insorgenza di un progetto di Califfato, a colpi di città conquistate e di bottini di guerra immensi, tra la crisi abissale siriana e la precaria e già defunta pax irachena, tra conseguenze della guerra di Bush e conseguenze della pacifica resa di Obama, si scopre che in apparenza niente funziona.

Con l’insorgenza di un progetto di Califfato, a colpi di città conquistate e di bottini di guerra immensi, tra la crisi abissale siriana e la precaria e già defunta pax irachena, tra conseguenze della guerra di Bush e conseguenze della pacifica resa di Obama, si scopre che in apparenza niente funziona. Non la guerra occidentale (interrotta) contro l’islamismo politico, i suoi regimi e stati carogna, non l’inazione prolungata come in Siria, non le primavere arabe illusorie e fragili, niente di niente. E allora? Per adesso si registrano lo smarrimento, il ritardo, la lentezza di movimento di chi doveva farsi garante di un nuovo ordine dopo l’11 settembre, poi si vedrà. Intanto si regolano conti in sospeso.

 

Va bene che il regolamento di conti è una delle attività preferite dell’essere umano, ma non bisogna esagerare. Ieri abbiamo pubblicato un formidabile corsivo politico dei Cheney (Dick e Liz, il vice di Bush e sua figlia). Scrivevano i due nel Wall Street Journal che dopo sei anni di presidenza Barack Obama non ha granché nella sua sporta di multilateralista, di premio Nobel per la Pace, di censore delle guerre dei predecessori in Afghanistan e a Baghdad, il che è vero. Aggiungevano, con una mostrificazione alla Michael Moore, che mentre il medio oriente brucia di islamismo jihadista, Obama parla di climate change e gioca a golf, una esagerazione. Gli hanno risposto sul New York Times un paio di corifei dell’Amministrazione democratica (Blow e Kristof). Sostenevano che il dramma dello Stato Islamico e della sua guerra santa tra Siria e Iraq dipende dalla guerra scatenata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, il che è in parte constatazione ovvia (secondo il principio di causa ed effetto, che però è più complicato di quanto sembri a prima vista, almeno nella storia e nella politica dopo l’11 settembre 2001); aggiungevano che Cheney è un rancoroso che dovrebbe andare a nascondersi, e darsi alla pittura come il suo presidente, invece di offrire lezioni, perché il suo track record gronda sangue e 4 trilioni di dollari con i quali tutti i problemi della povertà e della sanità e dell’istruzione nel mondo sarebbero stati risolti, una grottesca esagerazione.

 

Il mondo pullula di nemici ideologici della guerra di Bush e Blair, e di sostenitori pentiti (l’Economist è per sua ammissione nella lista dei penitenti, ma non si contano quelli che hanno votato per la presa di Baghdad e ora si accaniscono sull’errore di averla promossa, del novero fa parte addirittura Hillary Clinton, che vuole succedere a Obama). Nemici, sostenitori pentiti e impenitenti (tra cui questo giornale) dovrebbero fare un piccolo sforzo di razionalizzazione e argomentazione.

 

Alcune verità convenzionalmente accettate, e il riconoscimento dovrebbe essere generale, non funzionano più come sembrava un tempo. Per aggredire quella più pregnante sul piano simbolico, ricordiamo un borioso ambasciatore britannico a Roma, della schiatta “coloniale ma liberal”, che negli anni del dopoguerra iracheno, quando il paese era devastato dalla prima insurrezione sunnita, disse che Bush era “il principale reclutatore di Bin Laden” e del suo gruppo. Abbiamo visto che non è così: da molti anni, da prima del grande attentato contro il World Trade Center e il Pentagono, l’islam politico reclutava truppe di combattimento, chiamateli militanti o terroristi o come volete, in tutto l’arco della umma islamica, e sui fronti più diversi (uno dei primissimi, e con la ovvia complicità occidentale nel culmine della Guerra fredda, fu l’Afghanistan invaso dai sovietici nel 1979). Il reclutamento, ancora oggi, è un labirinto di strade misteriose e diverse; non esistono i combattenti stranieri, i foreign fighters, nel senso che, accada qui o lì (e sempre più spesso si moltiplicano i casi di conversione e arruolamento in Europa e perfino in Italia), l’entrata in guerra del jihadista, da Bruxelles a Mosul, è fatto islamico, riguarda la moschea come cittadella politica, l’imam come leader ideologico di un popolo di Dio che rigetta il Dio degli altri: il gruppo combattente che oggi sfida anche i binladenisti e vuole erigersi in stato califfale è nato in Siria, ha fatto i primi passi nella guerra su due fronti contro Assad e contro i gruppi guerriglieri anti Assad di diversa affiliazione e strategia (li chamano “moderati”).

 

Blair ha ricordato che non solo la guerra del 2003, comunque la si pensi in proposito, ma anche l’inazione come a Damasco o l’azione parziale e disordinata come in Libia genera jihadisti. Possiamo aggiungere come focolari il Libano, Gaza, l’Iran, Kabul e il Pakistan, tra gli altri. Occorre probabilmente tornare a capire quel che pensavamo di poter dimenticare: l’islam politico è il grande e tremendo problema di questo secolo, è il rifiuto del principio stesso di un ordine mondiale multilaterale, il rifiuto della mediazione politica, della convivenza religiosa con gli apostati e gli infedeli, e non deriva dall’arretratezza, dall’isolamento, dall’imperialismo occidentale, è piuttosto un linguaggio, una cultura, un credo, un movente potente e radicato, intrattabile, che corrisponde a secoli di storia e al racconto originario, mitico storico e teologico, della religione profetica affermatasi a partire dal VI secolo di questa èra e da allora in sussultorio e intermittente movimento.

 

Conosci il tuo nemico

 

[**Video_box_2**]Tornare a riconoscere questa realtà non equivale a tributare un omaggio all’islamofobia né conduce a conclusioni apocalittiche; semplicemente è un modo per conoscere e riconoscere una inimicizia fondamentalista, la sua scaturigine vera, i suoi sviluppi effettivi e potenziali. E’ un modo per dismettere il senso di colpa politicamente e ideologicamente corretto che indusse l’intero occidente, prima ad assecondare lo spirito di divisione e di resa che rese tormentosa e in certi momenti disperata la reazione dell’America all’incursione fatale di Bin Laden, poi a lasciare solo e a dannare un Papa, Benedetto XVI, quando affermò, citando le discussioni tra un dotto islamico e un imperatore bizantino, che la risposta ai quesiti più grossolani posti dai fatti, con tutte le sottigliezze e le distinzioni necessarie, va cercata nel rapporto degli uomini tra loro e al tempo stesso nella loro relazione a Dio, al trascendente, alla fede e alla ragione, che sono le vere materie del contendere. Tornare a Ratisbona ed elaborare una risposta mondiale di civiltà e di nuovo ordine possibile, questo a occhio e croce è il problema nell’epoca dei Califfati nascenti e del jihad dispiegato, per adesso con particolare virulenza e allarme in medio oriente, domani e dopodomani chissà dove, forse in casa nostra. E’ meno facile che decidere in ritardo un eventuale volo di droni sul cielo di Mosul.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.