La natura imperialista del Califfato

Daniele Raineri

Dai confini con l’Iran al Libano, sognando Roma e Gerusalemme. Lo Stato islamico s’allea con chi gli serve per arrivare al traguardo.

La proposta è semplicissima: vogliono creare un Califfato? Lasciamoglielo fare. Poi lo bombardiamo. L’ha pubblicata ieri un consulente del dipartimento politica dei Marines americani, Franz Gayle, su un sito specializzato in questioni militari. Gayle riconosce che il programma dello Stato islamico è reale, il gruppo armato sunnita che conquista territori e città a cavallo tra Siria e Iraq, sta davvero creando un embrione di Califfato. “Accettiamo il desiderio dei jihadisti di creare uno stato islamico. E’ proprio per questo tipo di aggressori irriducibili e concentrati che abbiamo sviluppato il concetto di air power. Terribile? Sì. Necessario? Assolutamente. Lo stesso calcolo spietato fu applicato anche durante la Seconda guerra mondiale”.

 

L’istanza Gayle suona assurda – Mosul è una città da quasi due milioni di abitanti – ma è uno dei primi segni che si comincia a reagire e accettare quello che gli ideologi dello Stato islamico vanno ripetendo da tempo. Hanno un traguardo. E’ ritagliare dalla mappa tradizionale del medio oriente uno spazio nuovo, che sarà sottratto con la forza al territorio degli altri stati e di cui ancora non conosciamo i confini. Il motto di combattimento è “Dawla al islamiya! Baqiya wa tatamadad!”, in arabo: “Stato islamico! Resistere ed espandersi!”. Un altro motto è “Min Diyala ila Dahie”, che vuol dire “Da Diyala”, la provincia dell’Iraq più a oriente, lungo il confine con l’Iran, “fino a Dahie”, che è il quartiere sciita di Beirut, in Libano. In pratica: dall’Iran al mar Mediterraneo. “Avete provato i governi secolari, la Repubblica, i baathisti, gli sciiti: ora è il momento dell’imam dello stato islamico, Abu Bakr al Qureishi (Al Baghdadi)”.

 

Il loro portavoce, un leader che si chiama Abu Mohammed al Adnani ed è molto apprezzato dai suoi sostenitori per il lirismo dei discorsi – ed è odiato da tutte le altre fazioni arabe coinvolte in questo Grande gioco mesopotamico – parla spesso nei suoi annunci di arrivare a Roma, simbolo del potere occidentale. Sì, può sembrare una licenza poetica, ma alla fine di marzo, il giorno dopo la visita del presidente americano, Barack Obama, al Colosseo, su internet è apparsa una mano ignota che reggeva un foglio di carta con il motto dello Stato islamico. Dietro, il Colosseo transennato. Come a dire, siamo anche qui. L’altra città citata sovente nei messaggi del gruppo è Gerusalemme, in arabo al Quds. “La Siria – dice un grande murale dipinto dallo Stato islamico nel piccolo centro di al Bab, vicino Aleppo – è il cancello per arrivare ad al Quds”.

 

Charles Lister, visiting fellow al Brrookings Center di Doha, scrive che il gruppo in Iraq conta circa ottomila uomini, assolutamente insufficienti per tenere (bayiya) il terreno su cui riescono a espandersi (tatamadad). Per questo stanno stringendo alleanze funzionali con tutta una serie di altri gruppi, uniti dallo stesso odio per il governo del primo ministro sciita Nouri al Maliki. Tra questi gruppi ci sono i rivoltosi delle tribù sunnite e i baathisti, reduci dalla disfatta contro gli americani nel 2003. Lister sottolinea un punto: queste alleanze tendono a spezzarsi, per le evidenti difficoltà a integrare visioni così diverse. A meno che, come sta succedendo, le differenze non siano appiattite da una guerra totale degli sciiti contro i sunniti. In quel caso, la necessità porterebbe a radunarsi sotto la bandiera nera. Così si spiegano le provocazioni sanguinose da entrambe le parti. Ieri la polizia della città di Baquba, prima di ritirarsi da una prigione assediata, ha ucciso 44 detenuti sunniti in risposta al massacro di soldati a Tikrit della settimana scorsa. Se non ci sono sfumature, si va verso la guerra totale.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)