E ora come combattiamo l'Isis?

L’urgenza della situazione in Iraq ha messo in moto gli analisti di politica estera, che ormai riconoscono all’unanimità le minacce che l’espansione di Isis comporta per gli interessi degli Stati Uniti nella regione e, potenzialmente, anche per la sicurezza in patria.

New York. Che fare? La più rivoluzionaria delle domande rimbalza nei corridoi dell’Amministrazione Obama a proposito della lacerante situazione in Iraq, figlia legittima di anni di traccheggiamenti nell’adiacente ginepraio siriano. Di fronte alle crisi internazionali di questi anni, la Casa Bianca ha insistito fino allo sfinimento sull’efficacia dello “smart power” e la varietà degli strumenti a disposizione del governo – dai droni alla diplomazia fino agli aiuti economici e al sostegno militare alle popolazioni ribelli – secondo l’idea obamiana che “non tutti i problemi hanno una soluzione militare”, ma l’avanzata repentina dei terroristi dell’Isis in Iraq restringe il ventaglio delle opzioni americane a tre alternative, nessuna delle quali è particolarmente desiderabile per Washington. La prima opzione è un intervento militare diretto; la seconda è una scivolosa alleanza di natura tattica con l’Iran nel nome del comune nemico sunnita; la terza è non fare nulla, un classico della politica estera obamiana.

 

[**Video_box_2**]L’urgenza della situazione in Iraq ha messo in moto gli analisti di politica estera, che ormai riconoscono all’unanimità le minacce che l’espansione di Isis comporta per gli interessi degli Stati Uniti nella regione e, potenzialmente, anche per la sicurezza in patria, vista la campagna di reclutamenti che il network terroristico sta facendo in occidente. Nel discorso all’accademia di West Point il presidente ha detto che è legittimo per gli Stati Uniti “usare la forza militare, se necessario unilateralmente, quando il nostro ‘core interest” lo richiede: quando la nostra gente è minacciata, quando le nostre risorse sono in gioco, quando la sicurezza dei nostri alleati è minacciata”. Facendo leva sul “core interest” minacciato, William Kristol e Fred Kagan, il primo intellettuale neoconservatore, il secondo analista militare e anima civile del generale David Petraeus durante il surge iracheno, propongono un piano per smantellare Isis senza consegnare l’Iraq all’Iran sciita, cioè senza “appoggiare una fazione in questa guerra”. Si tratta di cacciare dall’Iraq tutti i guerriglieri stranieri, dagli arabi sunniti agli iraniani alle truppe di Hezbollah, e questo “richiede la volontà di mandare forze militari americane in Iraq”. Non solo bombardamenti aerei (colpire dall’alto senza intelligence sul campo è inutile, lo ha ricordato anche il generale americano Anthony Zinni) ma anche “forze speciali ed eventualmente truppe regolari”. “E’ l’unica possibilità – scrivono Kristol e Kagan – di convincere gli arabi sunniti iracheni che esiste un’alternativa fra al Qaida e il governo sciita”.

 

Sul Wall Street Journal l’analista Danielle Pletka e l’ex generale Jack Keane articolano in modo anche più dettagliato una soluzione analoga. La seconda opzione – l’alleanza con l’Iran – è quella che il segretario di stato John Kerry non ha escluso (ma non ha escluso nulla, nemmeno i droni) e i diplomatici americani ne stanno discutendo a Vienna a margine delle trattative ufficiali sul nucleare. Non sfugge però che un patto con il nemico il quale è anche uno dei principali fattori destabilizzanti nello scenario che l’America tenta di stabilizzare non ha l’aria di una soluzione solida. La terza alternativa, una pianificata inazione da preferire, per calcolo strategico o opportunità politica, agli eccessi avventuristici del passato è quella che ha portato l’Iraq dov’è oggi.

 

 

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