Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale (Foto Ap)

Pennsylvania Avenue

La francese Lagarde, correndo per l'Ue, mette a rischio il Fmi

Domenico Lombardi

Se la cancelliera Merkel scegliesse l’ex ministro francese per guidare la Commissione o il Consiglio, il passato avallo del Fmi su austerity e altri errori dell’Ue apparirebbe come interessato. Cosa direbbero poi gli azionisti del Fmi dell’ennesima improvvisa “fuga” di un direttore europeo?

Una eventuale nomina di Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi), ai vertici delle istituzioni europee solleverebbe più problemi di quanti ne risolverebbe. Soprattutto se tale nomina alla testa della Commissione o del Consiglio Ue fosse intermediata dalla Germania, essa rischierebbe di aprire i riflettori sul merito e la tempistica di una serie di scelte critiche compiute al culmine della crisi dell’Eurozona su cui l’alta direzione del Fmi preferì allinearsi con i grandi azionisti europei piuttosto che metterne in evidenza gli aspetti critici e contraddittori dei loro piani d’azione.

 

L’imperdonabile ritardo nella ristrutturazione del debito greco, peraltro ancora incompleta; la decisione di colpire i piccoli depositanti nel primo programma cipriota bocciato nel giro di poche ore dal Parlamento di Nicosia; vari programmi di sostegno alle economie periferiche caratterizzati da condizionalità eccessivamente penalizzanti per quanto inefficaci: sono tutti esempi di decisioni prese malgrado le riserve del suo stesso staff ma in ossequio al consesso europeo di cui ha fatto parte, prima come ministro delle Finanze francese e poi come direttore generale del Fmi di marca europea. Certo, il suo rientro in Europa al vertice di una istituzione Ue le ridarebbe una centralità che il Fmi ha di recente perso nel teatro dell’Eurozona, disintermediato dalla Banca centrale europea prima con le Outright monetary transactions (Omt) e poi con il progetto dell’Unione bancaria.
La smentita di Lagarde su un suo interesse a rientrare in Europa fa seguito alla notizia secondo cui la cancelliera tedesca, Angela Merkel, aveva sondato il presidente francese, François Hollande, sull’appettibilità del suo nome. Smentita che rischia di essere tattica più che di sostanza e, in ogni caso, non cambia la sua strategia di fondo che mira a posizionarsi come riserva di alto lignaggio e apparentemente al di sopra delle parti nel caso che il processo delle nomine europee si areni sul terreno dei veti politici incrociati.

 

[**Video_box_2**]Per avvalorare un tale posizionamento, la Lagarde ha ancora bisogno del pulpito di Pennsylvania Avenue, dal quale elargisce quotidianamente ammonizioni ed elogi a 188 paesi. Il rinoscimento di un suo, anche larvato, interesse per le due posizioni chiave a Bruxelles ne determinerebbe, invece, le dimissioni immediate sulla base dei regolamenti interni che disciplinano i conflitti di interesse.

 

Ignaro di tali regolamenti, ne fece le spese l’allora direttore generale del Fmi, Horst Köhler, nel 2004. Letti di prima mattina i comunicati stampa che ne annunciavano la candidatura alla presidenza della Repubblica tedesca da parte della coalizione di centrodestra guidata da Angela Merkel, l’avvocato generale del Fmi piombò allora nel suo ufficio e, acclarata con l’interessato l’attendibilità dei resoconti, gli intimò di convocare una seduta di emergenza del consiglio di amministrazione dinanzi al quale il confuso neo candidato presidenziale rassegnò a tambur battente le proprie dimissioni dal vertice dell’istituzione internazionale.
Oggi, il danno maggiore di una prematura dipartita del suo direttore generale sarebbe poi per la stessa organizzazione finanziaria. Se così fosse, la Lagarde sarebbe il quarto direttore generale consecutivo a lasciare nel pieno del primo mandato, dopo il medesimo Horst Köhler, Rodrigo de Rato e Dominique Strauss-Kahn.

 

Quando quest’ultimo dovette rassegnare le dimissioni per i noti guai giudiziari, gli azionisti furono colti di sorpresa, il che avvantaggiò la compagine europea nel riproporre un proprio candidato, Christine Lagarde per l’appunto. Molti sostennero allora che le economie emergenti si sarebbero preparate per tempo con l’obiettivo di gestire il dopo-Lagarde cercando di interrompere la consueta tradizione che vuole un europeo occidentale alla testa di questa istituzione multilaterale.

 

Il ruolo dei paesi emergenti

 

Ma è difficile che questo scenario si realizzi, almeno nei prossimi anni. La crisi dell’Eurozona ha mostrato agli europei il potenziale valore strategico dell’organizzazione internazionale economica che sino al 2010 aveva operato per ben tre decadi unicamente in contropartita di paesi in via di sviluppo.

 

Come mostrato dall’elezione della Lagarde nel 2011, le grandi economie emergenti, Cina in testa, non sono a disagio con un direttore generale europeo rispetto al quale ritengono di avere maggior controllo. Non è un caso, per esempio, che il suo contendente, Agustin Carstens, governatore della Banca del Messico, tre anni fa riuscì a raccogliere il sostegno di Australia e Canada ma non del Brasile o delle altre grandi economie in via di sviluppo.

 

L’Amministrazione Obama, poi, malgrado le credenziali internazionaliste e multilateraliste con cui si era inizialmente presentata, avallò la candidatura del ministro francese facendo definitivamente naufragare le speranze del candidato messicano. Poco dopo, gli europei ricambiarono il favore facendo convergere i propri voti sul mediocre candidato imposto dalla Casa Bianca, Jim Kim, eletto al vertice della Banca mondiale esattamente un anno dopo. Oggi i principali attori riproporrebbero il medesimo copione senza grandi differenze. Per questo una prematura fuoriuscita della Lagarde non porterebbe nessuna innovazione di rilievo nella governance dell’istituzione multilaterale.

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