Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Renzi, Padoan e Visco. Così finisce la sotterranea guerra delle Entrate

Nunzia Penelope

Delega al Parlamento sulla burocrazia. Intanto sugli sceriffi del Fisco il premier scavalca il Tesoro e sceglie la Orlandi. Tremontiani vs. vischiani.

Roma. Alla fine quello di ieri non è stato soltanto il Consiglio dei ministri della legge delega per riformare la Pubblica amministrazione e del decreto legge sulla semplificazione della stessa Pa, ma anche il Consiglio dei ministri di nomine lungamente attese. Consob (Anna Genovese è il terzo commissario), Istat (Giorgio Alleva è il nuovo presidente) e soprattutto Agenzia delle entrate. In quest’ultimo caso non ci sarà un Mister Fisco, ma una Lady Tasse. Sulla poltrona di direttore dell’Agenzia delle entrate siederà infatti Rossella Orlandi, classe 1956, attuale direttore della sede piemontese, nominata dirigente generale da Massimo Romano alla fine del 2006. Era l’epoca del governo Prodi, con Vincenzo Visco ministro dell’Economia, alla quale risale anche la nomina dello stesso Romano a capo dell’Agenzia. Da sempre vicina alla sinistra, Orlandi è amica d’infanzia dell’ex parlamentare toscano Alberto Fluvi, già capogruppo Pd in commissione Finanze di Montecitorio, uno che ha sempre masticato politica e fisco. Sarà dunque Orlandi a guidare il colossale apparato dell’Agenzia, e non Marco Di Ca- pua, vice di Befera nonché candidato prescelto dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Si è a lungo parlato di “scontro” tra il ministro dell’Economia e il premier Matteo Renzi, ma forse non è questa l’unica determinante linea di faglia. La Orlandi ha avuto dalla sua due atout di indiscutibile appeal: è toscana ed è donna, due caratteristi- che apprezzate dal premier cui spetta l’ultima parola sulla nomina. Ma sulla sconfitta di Di Capua, preferito dal tecnico-politico Padoan, ha giocato un ruolo chiave pure Vincenzo Visco, deciso a stoppare l’ascesa al vertice di chiunque abbia avuto a che fare con il nemico di sempre, Giulio Tremonti. E Di Capua, in quanto vice di Befera, rientra in questo ambito. Una inimicizia che va avanti da vent’anni, quella tra Visco e Tremonti, in pratica un remake dei “Duellanti’’ in chiave fiscale. Per capire di cosa stiamo parlando occorre tornare indietro di qualche anno. Befera, da sempre vicino ai Ds e successiva- mente al Pd, è stato portato alle Entrate dallo stesso Visco nel 1997, come direttore vicario di Massimo Romano, un altro storico Visco boy.

 

Quando nel 2001 Tremonti arriva al governo, dunque, nessuno scommette sulla sua sopravvivenza, ma la temuta epurazione non arriva e Befera rimane direttore centrale. L’epurazione ci sarà invece nel 2006, col ritorno di Visco e Romano: stavolta Befera viene messo nell’angolo, tanto che a inizio 2008 decide di andarsene in pensione. I suoi gli organizzano perfino la cerimonia d’addio, ma il governo Prodi cade e i giochi si riaprono: torna nuovamente Tremonti, che dà il benservito a Romano e nomina proprio Befera capo dell’Agenzia. Una mossa bipartisan, forse apprezzata dal Pd ma certo non da Visco che vi legge soprattutto un tradimento del suo ex pupillo Befera.

 

Le origini della guerra risalgono dunque a quell’epoca e le conseguenze si trascinano ancora oggi. La scelta di Padoan su Di Capua sembrava una passeggiata, ma si è trasformata in una via crucis. Attesa per il Consiglio dei ministri del 16 maggio, la no- mina è saltata all’ultimo momento, e ha continuato a slittare di Cdm in Cdm.

 

Il braccio di ferro è andato avanti per settimane, ma giovedì scorso ha avuto l’upgrade di guerra ufficialmente dichiarata: con la vittoria già in tasca, Visco infatti due giorni fa è uscito allo scoperto. Nel corso di un convegno di Nens (il think tank fondato con Pier Luigi Bersani), ha bombardato l’Agenzia con accuse pesanti. In questi anni, ha detto in sostanza l’ex ministro, i piccoli evasori sono stati usati come “scudi umani”, mentre si graziavano i grandi evasori. L’Agenzia ha risposto altrettanto duramente, numeri alla mano dimostrando che se nel 2006 (epoca Visco) l’incasso da accertamento sui grandi contribuenti era stato di soli 110 milioni, nel 2013 (epoca Befera) si è saliti a oltre 2 miliardi, e da 157 milioni a oltre un miliardo per i “medi’’. Nessuno ha fatto nomi, ma tutti sapevano che la ragione dello scontro era, per l’appunto, la nomina di Marco Di Capua. Del resto l’Agenzia delle entrate è uno dei centri di maggior potere in Italia, ben più di un ministero o della presidenza di un ente. Le “torri’’ in Via Cristoforo Colombo 462 sono il vero ponte di comando delle politiche fiscali: chi siede su questa poltrona sovrintende a un organico di 70 mila persone, a una miriade di società collegate, e garantisce alle casse dello stato decine di miliardi l’anno di entrate. Una macchina da guerra, dunque, oppure un potenziale baraccone: tutto dipende da chi la guida, e in quale direzione. Nulla di strano, dunque, che ci si accapigli, quasi ci si scanni, per decidere in che mani consegnare tutto questo bendidio.

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